Perchè deve vincere Giorgia Meloni

Giorgia Meloni e la sfida tra democrazia e partitocrazia

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Comizio di Giorgia Meloni a Bari - Foto tratta dal web

La campagna elettorale che si avvia alla conclusione si è vissuta sullo schema del tutti contro una. Un inedito nella storia repubblicana, frutto di una legislatura che ha rappresentato anch’essa un unicum tutto italiano.

Prendendo in esame solo gli ultimi 5 anni, che ricordiamo hanno prodotto 3 governi, tutti con maggioranze diverse, tutti i partiti tranne uno, Fratelli d’Italia, hanno partecipato ad almeno un esecutivo.

Si è partiti con i giallo-verdi, passati ai giallo-rossi e finiti all’ombrello arcobaleno tenuto da Draghi sotto cui si sono riparati i partiti di cui sopra, in evidente crisi di identità e consenso.

Se non si parte da questo concetto non si capisce il clima di odio ingenerato verso Giorgia Meloni ed il suo partito. Non l’Europa, non il fascismo, non l’abolizione dei diritti civili, sono le cause per cui il resto delll’arco costituzionale si mostra a varie gradazioni ostile alla scalata di colei che sarebbe la prima Presidente del Consiglio della storia d’Italia.

Queste argomentazioni da talk show fanno parte di un armamentario propagandistico dietro il quale si celano i veri motivi di una postura che comprende alleati ed avversari di FdI.

Una postura che vede la reale frattura tra lei e gli altri nella concezione e nella pratica del modello di democrazia rappresentativa che si vorrebbe per il nostro Paese.

Un modello di democrazia diretta, tradotto con la Repubblica presidenziale, ed un altro che guarda al consenso elettorale ed alla volontà popolare come un ostacolo alla gestione del potere, e non come la precondizione per governare.

Non è un caso se a confrontarsi oggi esiste una sola vera candidatura a Palazzo Chigi, quella della Meloni, con tutti i suoi avversari che evitano di dire chi si candidi a guidare il governo qualora prevalessero nelle urne.

Alcuni si nascondono dietro la foglia di fico di Mario Draghi, che ha già declinato pubblicamente, ma la verità è che nessuno si candida davvero a governare, perché il modello da riproporre, secondo loro, è quello di perpetuare lo schema già visto dal 2013 ad oggi.

Maggioranze eterogenee, con Primi Ministri tecnici o sedicenti tali, che fungano da sintesi o notai delle controversie tra partiti tanto più litigiosi quanto inconsistenti in termini di contenuti.

Tutto poggiato su una lenta distorsione della prassi costituzionale, che consegnerebbe al Capo dello Stato, già eletto con una forzatura colpevolmente passata sotto silenzio, poteri sostanzialmente di governo, non previsti dalla Carta, togliendo al Parlamento ogni residua centralità, marginalizzato al ruolo di votificio di fiducie. Una specie di presidenzialismo espunto del voto popolare.

Nessuno tra Pd, Cinque Stelle e Terzo Polo ha mai detto in questi mesi con chi intenderà governare in caso di vittoria, non per reticenza, ma semplicemente perché lo farebbero con tutti, esattamente come accaduto fino ad ora.

Senza entrare nel merito dei temi, è innegabile che questo schema ha già fallito, sia se a suonare la campanella nel Consiglio dei Ministri sia un signor nessuno come Conte, sia che si tratti di una personalità di livello internazionale come Draghi.

I partiti, una volta si sarebbe detto la partitocrazia, preso atto della loro nullità politica, hanno scelto di barattare il governo con il potere, affidando le chiavi delle decisioni a soggetti esterni al gioco democratico, da anni il Premier non è un parlamentare, in cambio di postazioni gestionali, i Ministeri, con cui garantire la sopravvivenza dei loro piccoli o grandi apparati.

Per questo voteranno per la proposta di Giorgia Meloni non soltanto il tradizionale elettorato della destra, ma anche e soprattutto una grande quantità di quegli elettori, non ideologici, che decidono di volta in volta per chi votare. Una fetta di italiani che rifiuta un modello che vede il loro consenso come un fastidio, ma che non rinuncia da almeno 20 anni a cercare una proposta che si presenti come innovativa e riformatrice, sia che nasca a destra sia che venga da sinistra.

E’ la base sociale del primo centrodestra del 1994, parte di quel 41% che aveva scommesso su Matteo Renzi, così come tanti di chi si fece abbagliare dalla rivoluzione a Cinque Stelle e dal salvinismo.

La scelta di campo, o di qua o di la, il 25 Settembre, non starà nella caricatura proposta da Enrico Letta, ma tra un modello di democrazia ed uno di partitocrazia, aggravato dall’assenza di veri partiti.

Ecco perché deve vincere Giorgia Meloni.