Per chi, come me, ha la straordinaria opportunità di lavorare con i giovani, il calcio diventa un canale di comunicazione unico. Le chiacchierate, gli sfottò del lunedì mattina, la punta di ammirazione che leggo negli occhi quando mi vedono talvolta arrivare con la tenuta della Nazionale (sono stato per tanti anni collaboratore della Lega Nazionale Dilettanti e, recentemente, del Settore Giovanile e Scolastico della FIGC), diventano l’occasione attraverso la quale avvicinare le generazioni e, spesso, dal calcio si passa a discorsi che riguardano la vita, le speranze, i desideri di una generazione che si sta timidamente affacciando al “mondo dei grandi”. Tra le speranze, sicuramente, trova un posto di rilievo quella di diventare un calciatore (che se la batte con quella di entrare nel club dei, o delle, “influencer”). La passione per lo sport si mescola con il miraggio dei favolosi guadagni degli assi del pallone. E, facendo leva su queste legittime aspirazioni, nascono e si propagano come la gramigna, schiere di sedicenti procuratori e procuratrici che nulla hanno a vedere con organizzazioni e professionisti seri e preparati in grado di valutare le reali potenzialità del giovane atleta. Questi personaggi, dietro lauti compensi, “garantiscono” a genitori e figli carriere straordinarie in club prestigiosi con conseguenti (futuri) introiti da capogiro. E, chiaramente, questo approccio risulta, in diversi casi, devastante ai fini della carriera scolastica dell’adolescente. Il “Campione in erba” viene spinto, spesso con l’inconsapevole complicità delle famiglie, ad affrontare trasferimenti, a vivere precocemente lontano da casa, a dover cambiare scuola. Lo studio, talvolta, cessa di essere opportunità e si trasforma in “perdita di tempo”, in ostacolo verso il raggiungimento dell’eldorado calcistico. E se per un adolescente la vita in genere è ancora un gioco, per un trentenne comincia diventare una cosa maledettamente seria. Lasciamo perdere, per il momento, chi vede infrangersi i suoi sogni relativamente presto e da Campione si trasforma, quando non abbandona il calcio, in un buon giocatore di provincia che magari dal pallone tira fuori quanto basta per pagare la rata della macchina nuova o per integrare il normale stipendio di un altrettanto normale lavoratore. Il dramma vero è per quelli che, paradossalmente, arrivano a diventare dei professionisti. Uno studio di Guglielmo Stendardo, affermato calciatore di Serie A e ora avvocato e docente universitario, ci apre ad una realtà da brividi. Il 55% dei calciatori professionisti (Serie A, B e C) guadagna meno di 50.000 euro l’anno. Un buono stipendio, mentre sei in attività, ma dopo? Quando superi la soglia dei trenta anni e gli ingaggi si fanno sempre più rari (e meno interessanti economicamente) e devi pensare al momento del ritiro, che succede? Solo il 10% dei calciatori professionisti riesce a rimanere nel mondo del calcio dove, anche qui, si richiede cultura, professionalità, conoscenza delle lingue e delle nuove tecnologie, eccellenti capacità relazionali. E, allora, torniamo alla formazione scolastica. Sempre secondo lo studio condotto da Stendardo, il 70% dei calciatori di Serie A ha solo la terza media, il 26,2% ha il diploma e solo il 4,8% ha conseguito una laurea. E, aggiungiamo, quasi nessuno conosce un mestiere o una professione, perché, fino a quel momento, il proprio lavoro era stato quello di tirar calci ad una palla. E questo, al di la dei numeri, porta a conseguenze tragiche. Prosegue Stendardo che, a distanza di cinque anni dal termine dell’attività agonistica, sei ex giocatori professionisti su dieci vivono in stato di indigenza. In un intervento alla Luiss nell’ottobre del 2022, Igli Tare ex Direttore Sportivo della Lazio, fissa questa percentuale addirittura all’87%! E allora, qual è la soluzione? Sicuramente quella di condurre un “doppio binario”. Valorizzare sia l’attività sportiva, ma potenziare di pari passo l’aspetto scolastico e formativo, fornendo quegli strumenti culturali che, paradossalmente, possono rappresentare gli elementi per trasformare un “contratto a tempo” come il calcio in una reale opportunità per tutta la vita.

Ce lo ha testimoniato, con la sua esperienza, Guglielmo Stendardo, che ho avuto il piacere di conoscere in un evento dove eravamo entrambi stati invitati. Lo avevo lasciato da calciatore, lo ho ritrovato da stimato professionista del Diritto, Avvocato e Docente di Diritto dello Sport alla Luiss. Aveva fatto discutere, anni fa, la sua decisione di non giocare una prestigiosa gara di Coppa Italia tra Atalanta e Juventus perché, nello stesso giorno, doveva sostenere l’esame da avvocato. A distanza di tempo, ha messo tutti d’accordo. Calcio e cultura possono, anzi debbono, convivere uno accanto all’altra. Per il bene dello sport, della conoscenza e delle persone che amano e si appassionano allo sport più bello del mondo.

@marcogiustinelli