Beppe Di Maggio commenta “I Dieci Comandamenti” di Roberto Benigni

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Benigni
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Beppe Di Maggio commenta per Meta Magazine lo spettacolo di Roberto Benigni su Raiuno del giorno di Natale:

“Leopoldo, leopoldino e Benignaccio

Un detto popolare spesso utilizzato per ogni cosa ” Non c’è più religione” mi ronzava in testa mentre vedevo su Rai 1 la replica natalizia del discorso Urbi et Orbi  che tenne un anno fa un “intellettuale” dei giorni nostri, tal Roberto Benigni da Misericordia provincia di Arezzo  che seppe coinvolgere  circa dieci milioni di spettatori  (allora, non durante la replica ndr), mentre  leggeva  e commentava, da par suo sul piano dell’affabulazione(ma non della chiarezza), i  dieci Comandamenti scritti da Dio sulle celebri Tavole della Legge e  poi donate a Mosé – inizia così l’analisi di Beppe Di Maggio su Benigni e i suoi “Dieci Comandamenti”.

Comandamenti tramandati fino ai giorni nostri e osservati da tutti o quasi allo stesso modo con il quale Berlusconi pagava tutte le tasse allo stato.

Il nostro due volte Oscar (nell’ormai lontano ’99) dopo aver fatto l’esegesi ”della Divina Commedia dantesca”,  commentato da “costituzionalista” la Costituzione e da “melomane” anche l’Inno di Mameli , ha deciso di erudirci come fa Papa Francesco sui dogmi del Cristianesimo, quasi fosse, il fu Mario Cioni, un principe della Chiesa: considerando che negli ultimi anni  la figura di un uomo di Chiesa ha perso le proprie connotazioni spirituali per diventare “personaggio”, possiamo capire l’evoluzione (o involuzione)  del benignaccio 2.0, trasformatosi da discreto comico di rottura rispetto ad  un certo cattocomunismo figlio del ’68,  a “icona” buona per tutte le parrocchie,  renziane o vaticane: Bergoglio l’ha chiamato al telefono più volte, e l’Avvenire plaude da tempo alla sua “conversione”. Come Benigni ha detto, in una delle sue poche battute comiche durante lo show, la porpora cardinalizia sarebbe il suo prossimo passo, sempre se non lo si candidi direttamente al Quirinale.

Il sermone si è celebrato in uno scenario volutamente spoglio, per mettere in risalto il “sacerdote” che non avendo più “un Caimano” su cui lanciare le sue battute sempre meno mordenti ha parlato di Erode, Giuda, Mosé, Cristo, attraverso un’affabulazione fin troppo prolissa e caricata di aggettivi superlativi verso ogni comandamento (come se ce ne fosse il bisogno…), facendosi “tramite“ tra Dio e noi. Come ha ben detto l’ex piccolo diavolo, raccontando di quando Sant’ Agostino chiese ad un bambino come pensasse di poter contenere in una bacinella tutta l’acqua, il piccolo gli rispose (prima di rivelarsi un angelo) “E tu come pensi di poter contenere nella tua mente Dio?”, è una pretesa, quella di divenire tramite, che nemmeno i santi hanno mai avuto.  Almeno in vita.  Che altro ci sarebbe da aggiungere a questo spettacolo non riuscito in partenza – aggiunge Beppe Di Maggio -, almeno su un registro alto come quello della “catechesi” per il popolino. Sia sul versante della comicità sia su quella della “lectio magistralis”, poi è parso scialbo, pretenzioso e poco efficace.

Al Benigni giullare è semplicemente successo quello che, su ben altri livelli, capitò a Chaplin, Stanlio e Ollio, Keaton e Totò: la sua vena comica con l’incedere dell’età, quasi 60 anni, si è fisiologicamente atrofizzata; lo spartiacque in negativo fu il mediocre e superficiale la Vita è Bella, che cercava di banalizzare – commenta Di Maggio – un tema così centrale come l’olocausto. Tutto questo ad uso e consumo del pubblico natalizio (appunto), che ha continuato a seguirlo, più nel ricordo del Benigni che fu, anche quando si è autoproclamato “esegeta” o “intellettuale” pur non avendo nessuna base per poter adempiere a questo ruolo, che del Benigni che è. In questo senso basterebbe vedere la totale confusione mostrata quando si trattò di parlare di storia risorgimentale nel commentare l’inno di Mameli, uno zibaldone di luoghi comuni.

Certo alcune zampate da vecchio comico ci sono ancora, ma tutto puzza – ancora Di Maggio – di acqua santa diventata rancida, il fatto stesso che Avvenire e Famiglia Cristiana, noti amanti di un certo tipo di divulgazione religiosa stile trasmissione “A sua immagine”, abbiano esultato mi dice quanto lo spettacolo fosse mediocremente dolciastro. Entrando nello specifico, stucchevoli aneddoti (Mosè balbuziente che non si sentirebbe all’altezza del compito, il padre di Benigni contadino che parlava di religione con il sacerdote del paese, la maestra delle elementari che lo interrogava sui comandamenti) raccontati come fossero quasi delle parabole ed invece degni di un cattivo catechismo. Aggiungiamoci poi alcune spiegazioni discutibili su certi comandamenti, tipo il non commettere atti impuri: secondo il nostro la masturbazione non ci rientrerebbe, mentre solo un buon senso laico può depotenziarne la colpa. Il peggio lo ha dato riguardo al  non dire falsa testimonianza, sulla xenofobia  e sull’omicidio: sembrava più no spot per Amnesty International , tutto giusto, ma dov’era l’originalità, l’essere dirompenti, iconoclasti anche su  una materia così esplosiva? Sembrava il festival del luogo comune, con aperture del nostro Mosè 2.0 su alcune cose, vedasi le bugie cosiddette bianche che sono tollerabili, al pari del non pagare il canone Rai (almeno fino alla rivoluzione renziana, ora ce lo metteranno…in bolletta) e le tasse sull’immondizia (consentitemi l’amara battuta). Tirando le somme idee molto personali (magari dettate dai suoi spin doctor “leopoldini”) utilizzate per far diventare il cattolicesimo benignesco degno di quei “cattolici da pasticceria” tanto deprecati da Papa Francesco.

Rivedendo, distrattamente lo ammetto (tuttavia a mio discolpa ero stato attento la scorsa volta), questa stantia replica, ho rivisto per un attimo la Leopolda (cinque o sei, poco importa), piena di tanti “santini” da non profanare con domande scomode, nonostante lo scandalo di Banca Etruria e il “caso” Boschi.

Certo, Benigni registrò lo spettacolo un anno orsono prima di tutti questi avvenimenti, ma chissà perché ho come l’impressione – si avvia alla conclusione Beppe Di Maggio – che non avrebbe citato questi avvenimenti. Certo i comandamenti sono solo 10, ma magari aggiungere un undicesimo, se dovesse riscrivere lo spettacolo insieme ai suoi autori: “Non truffare il tuo prossimo, sempre e comunque”, magari sarà poco attinente al sacro, ma moltissimo alla morale. Umana.

Un’amara postilla: come sono lontani i tempi di Mario Cioni, l’inno sciolto, il Pap’occhio, Wojtilaccio e “Berlinguer ti voglio bene”: oggi Roberto – conclude Di Maggio – dovresti dire “Presta (il suo agente) ti voglio bene” visto il cachet (si parla di 4 milioni di Euro). E’ proprio vero bisognerebbe aggiungere un undicesimo comandamento: “Non diventare da vecchio come quelli che sbeffeggiavi o criticavi da giovane”.  E non vale solo per Benigni”.