Al Vittoriale il Boldini che non ti aspetti

A Roma mostra del pittore Boldini

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Ritratto del padre Antonio Boldini

Non è il solito “pittore delle dame”, il Giovanni Boldini esposto al complesso del Vittoriano a cura di Tiziano Panconi e Sergio Gaddi. Almeno, non è solo quello. Certo, molte delle divine che il pittore ferrarese ha consegnato all’immortalità sono presenti, ma la mostra che ha aperto i battenti venerdì 3 marzo, a Roma, porta allo scoperto tanto altro di Boldini. Sono oltre 150 le opere (sessanta, diversi prestatori, tra cui qualche internazionale) a cui se ne aggiungono altre 30 di artisti coevi (Banti, Corcos, De Nittis, de La Gandara, Signorini, Tissot) che si snodano in un percorso artistico di quattro sezioni: “La luce nuova della macchia” (1864-1870); “La Maison Goupil-fra chic e impressione” (1871-1878); “La ricerca dell’attimofuggente” (1879-1891) e “Il ritratto Belle Époque” (1892-1924). Boldini, classe 1842, figlio di un’Italia non unita e ottavo dei 13 figli di un pittore che non voleva seguisse le sue orme “per non morire di fame”, ha un talento indiscusso, fin da bambino (“Proprio come Picasso”, ha sottolineato uno dei curatori, Sergio Gaddi). Da Ferrara, studia all’Accademia di Firenze e frequenta i Macchiaioli. Ma il Belpaese, che pure gli riconosce il talento, non è abbastanza: viaggia nelle più grandi e famose capitali del tempo e opera come ritrattista finché non sceglie Parigi, vi resta, diventa ricco e ivi muore nel 1931.
Fu vera gloria? A ben guardare, la notorietà – ergo, l’invidia – che lo accompagnò durante e dopo, a suo modo, gli ha precluso il dovuto apprezzamento. Ed è qui che interviene l’esposizione capitolina, che potrebbe riportare le cose in pareggio, mostrandoci un Boldini capace di interpretare il gusto di un’epoca, oltre i desideri di una clientela pretenziosa che, allo chiffon, mescolava potere e ambizione. Un’ambizione che Boldini condivideva. Lui che nulla di nuovo ha lasciato all’arte a posteriori, ha, però, portato così all’eccesso le sue note pennellate “a frusta”, al punto che non è errato pensare a Boccioni. Tanto per dirne una.
Lui che non improvvisava e studiava tutto: ogni lavoro era preceduto da schizzi, appunti e prove, anche se sembrerebbe altrimenti a primo acchito. Lui, il massimo rappresentante del ritratto d’epoca, capace di imporre un genere: le tele rappresentano le strade parigine, la vita notturna nei caffè, lo spirito della Belle Époque. E le donne, specialmente. Le “sue” sono raffinate ed emancipate. Di loro (con e senza veli) riesci ad immaginare la storia: borghesi ricche, spesso ricchissime, consce della loro carica erotica e del potere che da esso deriva, con piedi affilati e mani piccole e bianche, gambe lunghe e affusolate, vitini di vespa nei bustini steccati. Icone vincenti di un’epoca di progresso che guardava con fiducia al futuro e verrà stroncata solo dalla Grande Guerra. Dive che calcano il palcoscenico della tela, prefigurando l’odierna donna di successo: disinibita e sicura di sé. Gli storici dell’arte del Novecento hanno relegato Boldini in serie B, ritenendolo privo di spessore politico, ergo di impegno sociale. E con lui, tutti i suoi lavori. Ma come si fa? La sua bravura, la sua tecnica, la sua capacità di appartenere, assieme, a più di una linea artistica non si discutono. La “maniera” sì, ma pure l’Impressionismo. Dove? Nella resa delle sfumature delle sete, delle carnagioni delicate, degli sguardi fugaci; nelle pennellate che danzavano intorno ai visi, i soli sempre messi bene a fuoco. Il Futurismo? Nella sequenza veloce del segno. Probabilmente, si trattò di un professionista del pennello che padroneggiava tecniche che piacevano e lo facevano guadagnare, assai lontano dall’artista maudit dell’immaginario collettivo che non aveva cosa mettere in tavola e viveva in mansarde fredde e ammuffite. Per gli appassionati e per quanti hanno il terrore che venga messa all’asta, in esposizione c’è anche il ritratto di Donna Franca Florio, eccezionalmente sottratta ai guai giudiziari e testimonial della mostra. Così, come, per chi non lo sapesse o per ricordarlo a chi l’ha dimenticato, c’è quel Giuseppe Verdi che campeggiava sulle vecchie mille lire. Sì, perchè quel ritratto lo ha dipinto Giovanni Boldini: lui viveva di arte. Con l’arte guadagnava. E bene. Oggi, mettendo da parte le ideologie (soprattutto marxiste), possiamo godercelo restituendo valore inequivocabile alla sua pittura. Fino al 16 luglio 2017. La retrospettiva è organizzata e prodotta dal Gruppo Arthemisia, assieme all’assessorato alla Crescita culturale-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale, sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, con il patrocinio del MiBACT e della Regione Lazio.