Medici in prima linea, storie dai reparti Covid

Michela e Paolo lavorano nei reparti di medicina Covid e terapia intensiva all'Ospedale dei Castelli e ci raccontano la loro esperienza a contatto col virus

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Ospedale dei Castelli Romani

Li abbiamo chiamati angeli, per settimane si sono susseguite iniziative di solidarietà, manifestazioni di affetto e stima: sono i medici, gli infermieri e tutti gli operatori sanitari che da tre mesi sono in prima linea nel contrasto al virus, per salvare le vite di chi incappa nel contagio.

Proviamo ad entrare nelle corsie del reparto Covid del Nuovo Ospedale dei Castelli Romani, nelle sale della terapia intensiva, dando voce a chi quei luoghi li ha vissuti in prima persona. Proviamo a raccontare la storia di quei giorni drammatici in cui la pandemia sembrava inarrestabile, incombente anche nelle nostre città e non solo nel lontano nord.

Facciamolo raccontando pezzi di singole storie, emozioni e sentimenti che hanno accompagnato gli operatori in quei giorni lungo le corsie.

Michela e Paolo, medico internista la prima, infermiere il secondo, rispettivamente nel reparto di medicina, allestito unicamente per i pazienti Covid dai primi di Aprile, e della terapia intensiva del NOC. Due storie di cui ci serviamo per aprire un piccolo squarcio in ciò che sarà la nostra memoria di questo tempo.

Si perché gli infermieri ed i medici sono uomini, e donne, che hanno una vita, una famiglia, oltre la professione. E’ il caso di Michela, che ha continuato a lavorare non ostante il marito fosse ricoverato all’Umberto I, tra i contagiati da Covid.

“Ero a casa, avendo due bambine, non potendo lasciarle sole, ho vissuto la normale quarantena in quanto congiunta di un contagiato, mi sono sottoposta a tutti gli esami di protocollo stabiliti in questi casi, ero in contatto con mio marito via cellulare, essendo lui isolato, ma avevo un pensiero in testa: tornare al più presto al mio posto di lavoro in reparto. La mia esperienza lavorativa proviene dal pronto soccorso – ci dice Michela – perciò sono abituata a fronteggiare scenari sempre nuovi ed imprevedibili. Certo una pandemia come questa non l’ho mai vissuta, ma ho affrontato tutto come una nuova sfida, con uno spirito positivo. Sapere che mio marito fosse contagiato, che stava migliorando, è stata per me una spinta ulteriore. Volevo contribuire con il mio lavoro a combattere il virus, a curare le persone”.

Molti si chiedono se ci fosse un reale rapporto umano con i pazienti ed i loro familiari, impossibilitati a visitarli: “Abbiamo fatto del nostro meglio. Certamente la situazione è molto particolare. Informavamo quotidianamente le famiglie. In alcuni casi, con i pazienti più anziani che non potevano utilizzare gli smartphone, ci siamo prestati a fare da tramite, anche con i nostri telefoni, ovviamente poi opportunamente sanificati. Il più complicato è stato il rapporto diretto con i pazienti. Molti con patologie complesse, vivere il ricovero in isolamento o quasi è stata una esperienza molto impattante. Anche noi, dovendo indossare i dispositivi di protezione – tute, maschere, caschi e occhiali ndr – perdevamo molto del nostro aspetto umano agli occhi dei ricoverati in reparto. Spesso uno sguardo, un gesto, ci si capiva così. Capivamo che questi pazienti cercavano molto un contatto umano. Abbiamo sempre curato molto questo aspetto, nel limite che le misure di sicurezza ci consentivano”.

Ora la situazione di tensione si è indubbiamente allentata e la pressione in reparto ed in terapia intensiva è diminuita.

“Indubbiamente dai primi di Maggio si percepisce un netto miglioramento – ci dice Paolo, infermiere di terapia intensiva al NOC – ma la nostra attenzione è sempre alta”.

Un caso che vi è rimasto nella memoria?

“Due pazienti ricoverati in intensiva di circa 45 anni. E’ un virus strano, imprevedibile, può peggiorare o migliorare in poco tempo. Fortunatamente nel caso di queste due persone, non di età avanzata, non colpisce solo gli anziani, tutto è finito bene”;

Cosa si intende per attenzione oltre le normali cure da prestare?

“Anche nel vestirsi. Dobbiamo seguire regole precise ed è richiesta una grande cura, basta toccarsi o toccare qualcosa di sbagliato o di non protetto per essere un potenziale rischio e non poter più lavorare. Avevamo notizie da colleghi impegnati in altri ospedali, sia di Roma che del nord. La nostra, se pur impegnativa, è una situazione certamente meno drammatica di altre. Dalle parole dei colleghi, soprattuto del nord, si percepiva subito la drammaticità di ciò che stava accadendo, soprattutto tra la fine di Marzo ed inizi Aprile”;

Avevate sentore di come le persone dall’esterno guardavano al vostro lavoro?

“Sentivamo l’affetto e la stima delle persone verso ciò che stavamo facendo. Non è mai mancato. Abbiamo apprezzato le iniziative di solidarietà ricevute, soprattutto a Pasqua, così come percepivamo le preoccupazioni delle persone che ci domandavano cosa stesse davvero accadendo”.

Di Andrea Titti