Cento sono i giorni senza stipendio, sessanta le famiglie senza futuro e infinite le paure sul domani, i dubbi sul da farsi, tanta la rabbia che monta. Una storia come molte altre quella dei dipendenti della Cami Solution, ex Galvanica Romana, circa 60 famiglie, che da tre mesi non ricevono stipendio, dopo quattro anni di vicessitudini di un’azienda in crisi di liquidità ma non di lavoro. Si perchè è questo il paradosso dello stabilimento di Pavona, nel Comune di Albano Laziale, dell’industria di lavorazione del rame e materiali ferrosi in questione. A mancare non sarebbero le commesse ma i soldi per acquistare la materia prima, in un mercato come quello del rame assai fiorente e ricercato, non a caso ribattezzato l’oro rosso. Nel 2010 la proprietà della Galvanica Romana di Pavona viene coinvolta in vicende giudiziarie che hanno portato l’azienda in amministrazione controllata e sotto l’egida di un commissario. Da li l’inesorabile scivolamento verso il precipizio di oggi. “Le banche che non fanno credito, – raccontano a Meta gli operai che dalla serata di mercoledì 9 luglio scorso sono in presidio permanente davanti i capannoni di via Piani di Monte Savello 57 – l’assenza di un reale piano industriale, una mancata gestione imprenditoriale, sono le principali cause che ci hanno portato all’esasperazione di questi giorni”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata, secondo lavoratori e rappresentanze sindacali interne, una riunione del 9 giugno, tra tutti gli attori della crisi, gestori e delegazioni sindacali, nella quale “è apparso chiarissimo – ci dice Angelo Zanecchia, esponente Fiom Cgil di Pomezia che segue la vicenda per conto dell’unico sindacato presente in azienda – che non vi sono le necessarie prospettive per alcun rilancio. Per questo – ha aggiunto – abbiamo deciso di porre in essere il presidio di queste ore”.
“Siamo qui anche per difendere il materiale che si trova tutt’oggi all’interno dello stabilimento – aggiungono gli operai a margine di un’assemblea svoltasi nella mattinata di giovedì 10 giugno all’esterno del capannone. Già ci sono stati tre episodi di furti di rame qui, anche così difendiamo il nostro lavoro”, chiosano alcuni di loro.
La crisi prolungata dell’insediamento industriale in esame è constatata anche dal fatto che da due anni circa i dipendenti sono in regime di contratto di solidarietà: “questo è un segno del fatto che – ci spiegano i lavoratori – la nostra volontà è nel senso della collaborazione con la gestione, al fine di tutelare tutto l’azienda, magari anche facendo noi in primis dei sacrifici in termini di retribuzione. Per tutta risposta – dicono i più esasperati, in un clima tuttavia di serenità e consapevolezza, ci sono stati tolti i buoni pasto senza alcuna giustificazione o preavviso”.
Dietro la porta di una fabbrica che chiude, l’ennesima, per questi lavoratori sembra esserci la mobilità e, forse, un po’ di cassa integrazione straordinaria. Colpisce anche l’osservatore più abituato a vedere scene come quella di stamattina, una certa composta rassegnazione a quello che appare, e forse è ineluttabile, contenuta nelle parole di un lavoratore che, mentre ci allontaniamo dal sito del presidio ci dice: “Mentre Papa Francesco continua a predicare che portare il pane a casa significa non perdere la dignità e il Premier Matteo Renzi va avanti nel dire che le banche devono allentare la presa sul denaro che si tengono ben strette, l’Italia vera – quella che non corrisponde a numeri da sottrarre, somme da tirare o operazioni da risolvere – l’Italia reale muore, si spegne lentamente aggrappandosi alle parole di chi comanda.
Non c’entra la retorica in questi casi: è la verità. Non bisogna dimenticarsi che dietro i numeri, ci sono i nomi: Antonio, Massimo, Wolfango, Sandro, Sergio, Saverio, Emiliano, Miro, Santino, Pino, Fabio, Daniele, Placido, Stefano, Giancarlo, Franco, Mario, Eugenio e tantissime altre lavoratrici e lavoratori che si trovano nella nostra stessa drammatica condizione”.