Differenza Donna “Basta violenza, basta femminicidi”

Differenza Donna, “Insegniamo la libertà alle giovani donne”

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Differenza Donna

Differenza Donna nasce nel 1989 per prevenire e superare la violenza di genere, sensibilizzare ed infor- mare sul tema. Abbiamo incontrato Sabrina Frasca, esperta di genere del centro “Differenza Donna”, per conoscere tutte le sfumature della violenza contro le donne.

Sia a livello nazionale che internazionale siete sostenute e finanziate da enti locali ed istituzioni. Cosa significa, da donna, lavorare all’interno di un’associazione che combatte una battaglia particolarmente dura come quella della violenza di genere?

“Alle donne che si avvicinano alla nostra associazione dico sempre che essere un’attivista di differenza donna significa innanzitutto lavorare per migliorare la propria condizione di donne e poi, ovviamente, lavorare affinché insieme ad al- tre donne si costruisca una società meno discriminatoria. Siamo in primis volontarie di noi stesse, non lo consideriamo solo un lavoro ma un modo per costruire una società più giusta, per noi e per le nostre eventuali figlie e/o figli”;

I centri antiviolenza sono luoghi di protezione per tutte quelle donne vittime che si rivolgono a voi. Quanto è difficile per loro fare il primo, indispensabile, passo che è quello di chiedere aiuto?

“Il cuore del problema è proprio questo. La violenza contro le donne ha delle caratteristiche molto specifiche perché viene agita dalla persona con cui hai costruito un progetto familiare, con cui hai avuto dei figli, a cui sei legata sentimentalmente. È quindi una persona importante per te quella che ti sta agendo violenza. Decidere di denunciare chi ti sta affianco è una scelta difficilissima, soprattutto perché le donne sono convinte di poter cambiare l’uomo che amano, o che quello che sta succedendo sia colpa loro, che forse è un momento e passerà. Esistono mille giustificazioni che la società intera, e quindi anche le donne stesse, danno alla violenza di genere. Questo è il motivo per cui ci si mette del tempo per compiere il primo passo e chiedere aiuto. Chiamare un centro antiviolenza significa dare un nome preciso a quello che si sta vivendo e prima di ammettere che tutto ciò non è amore ma è violenza, si impiega molto tempo”;

Nella vostra associazione ricorre spesso la parola solidarietà. In una società dove regna l’omertà, la solidarietà tra donne e per le donne può fare la differenza, può riuscire a salvarne e farne rinascere molte.

“La solidarietà è il nostro metodo di lavoro ed anche di tutti quegli organismi che si occupano di violenza contro le donne. Si chiama metodologia di genere, ovvero da donna a donna, e si basa sull’idea che quando si subisce violenza in quanto donna, e si è quindi piene di paure, di confusione e di sensi di colpa, si ha bisogno di qualcuna che ti capisca, che non ti giudichi e sia empatica con te. Utilizzare un’accoglienza di genere che abbia come parole d’ordine l’empatia e la solidarietà, è il modo migliore per costruire assieme alle donne percorsi di libertà”;

Differenza Donna ha portato in Italia il metodo SARA attraverso il progetto DAPHNE. Di cosa si tratta?

“Il programma DAPHNE è un progetto europeo di finanzia- mento alle associazioni di donne. SARA è uno strumento di valutazione del rischio di recidiva e di escalation della violenza, importato dal Canada. È una tabella con degli indicatori che ci aiutano a capire se una donna, che vive già una situazione di violenza fisica, è a rischio di subire una escalation di quest’ultima e di continuare a subirla. È utile soprattutto per fare una prima valutazione e capire se è il caso di prendere subito delle misure forti, come denunciare. È uno strumento molto utile e spesso utilizzato anche dalle forze dell’ordine”;

Le donne, in rari casi gli uomini, sono spesso vittime di atti persecutori. La vostra associazione è dotata di sportelli antistalking che, oltre ad accogliere la vittima dando sostegno psicologico, offrono anche assistenza legale, organizzano corsi di formazione e monitoraggio dei casi. Scendete in campo con la massima professionalità. Quanto incide la competenza nel dare aiuto e protezione a chi si rivolge a voi?

“La competenza ha molta importanza, la professionalità meno. Essere specializzati nella cultura della violenza di genere, capire quindi quali sono le responsabilità dell’autore del reato, è molto importante. Serve esperienza, formazione ma anche e soprattutto empatia”;

Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini ma su loro stesse” (Mary Wollstorecroft). Essere padrone del- la propria vita, psicologicamente ed economicamente in- dipendenti, è un aspetto fondamentale per riconoscere il proprio valore sociale, per imparare ad essere apprezzate e non abusate, violentate, aggredite. Avere consapevolezza della propria forza, può fare la differenza ed aiutarci a far rispettare i nostri diritti e la nostra dignità?

“Tantissimo. Bisogna però sottolineare che la violenza colpisce tutte, indistintamente. Non sono le caratteristiche di chi la subisce che modificano la possibilità di subirla. Ci sono donne con una grande sicurezza in loro stesse e una forte autostima che si ritrovano ad essere vittime di uomini violenti. Quello che cambia è la tempistica di reazione, di uscita dalla situazione di violenza. Un uomo che ti discrimina, che limita la tua libertà piuttosto che aiutarti ad essere più libera, che è molto geloso, genera, in chi subisce, dei danni, creando insicurezza e dubbi anche alle personalità più forti. È però vero che se si vive e si è vissute, in un con- testo sociale e culturale che ti ha insegnato fin da piccola che a certe cose non si deve rinunciare, come all’autonomia economica, alla vita sociale e privata, all’avere delle amiche con cui uscire da sola la sera e che nessuno deve e può impedirti di farlo, ti può aiutare a riconoscere che quella che vivi è una realtà sbagliata e, quindi, a chiedere aiuto prima. La migliore prevenzione è insegnare la libertà alle giovani donne”;

Che ruolo svolge la paura?

“La paura svolge un ruolo forte. Quando una donna si trova ad essere vittima di una situazione di violenza, nascono una serie di paure legate alla propria credibilità perché viviamo in una società in cui spesso non siamo credute, in cui in molti giustificano l’aggressore e vedono nella donne la causa stessa della violenza. Le donne hanno paura di essere lasciate sole dalle istituzioni, di perdere i propri figli, temono di non essere protette e che l’uomo che hanno denunciato rimanga impunito e possa tornare quindi a farle del male. Sono purtroppo paure molto fondate. La strada della denuncia è in salita, è faticosa, le donne decidono di percorrerla solo dopo molti altri tentativi. Ma è sicuramente una via per la libertà”;

Qual è il sentimento che accompagna le donne in questo percorso di “liberazione”?

“Purtroppo la giustizia italiana è molto lenta. Dal momento della denuncia potrebbero passare anni prima di avere giustizia, e non sempre è detto che giustizia si farà. Per questo il sentimento di esasperazione con cui si arri- va a denunciare la violenza non si trasforma subito in un sentimento di liberazione, spesso si continua ad avere paura, a sentirsi vuote e sole. Ci sono casi rari in cui denunciare significa ottenere subito delle misure di protezione e altri casi, molto più frequenti, in cui non c’è una risposta adeguata nell’immediato. Per noi non è importante de- nunciare o non denunciare, per noi è importante aiutare le donne a trovare una loro strada. Le vogliamo renderle consapevoli delle difficoltà ma anche della giustizia, che è sempre bene perseguire”;

Prepotenze e soprusi, la violenza non è solo fisica. L’uomo sa essere crudele in molti modi e può sfogare la sua violenza in casa, a lavoro, a scuola. È proprio nelle scuole che va fatto il lavoro più intenso: bisogna educare i maschi fin da bambini al rispetto e all’amore. La lotta alla violenza di genere è, prima di tutto, una questione culturale?

“Assolutamente. Parlare ai bambini, alle bambine è fonda- mentale per costruire una società migliore di quella in cui viviamo oggi. Bisogna educare i maschietti al fatto che le bambine vadano rispettate, che siano viste come delle pari perché nell’amore non deve mai esserci un rapporto di potere ma di scambio, di consenso. È una questione culturale, di mentalità… non si parla mai, ad esempio, di quanto la violenza faccia parte della vita di tutte, di quei piccoli gesti che rafforzano una cultura sbagliata. La violenza fisica è solo la punta dell’iceberg, il problema alla radice è la violenza che tutte noi subiamo quotidianamente solo perché donne e a cui ingiustamente siamo tutte abituate. Cresciamo dando per certo che la violenza è purtroppo molto possibile”;

Le parole sono importantissime per andare al cuore del problema. Frequentemente i media parlano di femminicidio associandolo alle parole “troppo amore”, “eccessiva gelosia”. Parole che sembrano alleggerire la gravità di quella azione che altro non è che omicidio. Parte tutto dal linguaggi, ad esempio: come mai agli uomini rimane cosi difficile chiamarci ministre anziché ministro, o direttrice anziché direttore?

“Il linguaggio è lo specchio del pensiero di chi parla. È un problema, infatti, il fatto che il femminile sia usato pochissimo; non riesce ad entrare ancora nel linguaggio perché non è entrato nelle teste delle persone, nella cultura, nel pensiero. Quando i media parlano di violenza sulle donne viene usato un linguaggio che attinge purtroppo ad una cultura che è quella della società: l’idea che violenza e amore siano connessi è uno dei punti più forti da sradicare e combattere. Cambiare il linguaggio significa cambiare la cultura e, per questo, ci vuole del tempo”;

In Italia, nel concreto, si fa abbastanza per sostenere le donne e combattere la violenza? Cosa dicono i dati?

“Al momento la legge più recente sul femminicidio stanzia dei soldi in maniera costante ai centri antiviolenza. Questi soldi secondo il rapporto della corte dei conti sono stati trattenuti dalle regioni, solo il 20 per cento di quelle cifre è stato speso per risolvere il problema della violenza di genere. Questo ci racconta che in Italia abbiamo fatto un’ottima legge, abbiamo provato a finanziarla con dei fondi importanti, ma non siamo riusciti ad indirizzarli a quello per cui erano destinati. Per questo biennio ci saranno degli strumenti di monitoraggio per obbligare le regioni a spendere quei soldi solo per ciò per cui sono stati stanziati. Combattere il problema della violenza di genere non significa solo sostenere le associazioni, ma anche asili nido che permettano alle donne di andare a lavorare, creare delle opportunità per aiutarle ad entrare nel mondo del lavoro, fare delle leggi che facilitino la conciliazione della maternità con il lavoro. Dobbiamo imparare a sostenere la loro autonomia. In Italia a parole si dice molto, in pratica ancora non si fa abbastanza”;

Uomini che odiano le donne: l’aggressione psicologica e fi- sica colpisce mogli, mamme, sorelle, figlie, ex compagne. Esiste un identikit dell’uomo potenzialmente violento?

“Purtroppo no, ma esistono degli indicatori che devono mettere in allarme la donna quando li subisce. Sono tutti quei comportamenti che limitano la libertà ed è questo il modo migliore per capire se si ha accanto una persona che ti ama nel modo giusto o meno. Un amore fatto di possesso, di controllo, di gelosia, non è amore. Il primo indicatore è quindi sentire quello che si prova; il secondo è capire se l’uomo che ti sta accanto sta limitando le tue potenzialità o le sta invece rafforzando. In una relazione rispettosa una donna dovrebbe sentirsi valorizzata, arricchita da quell’amore, non svuotata, isolata o sminuita”.

PER AVERE INFORMAZIONI SU DIFFERENZA DONNA

E SULLE MODALITÀ DI DONAZIONE ALL’ASSOCIAZIONE: WWW.DIFFERENZADONNA.ORG

Tratto da Purple Magazine