Come sarebbero andate le elezioni regionali in Lazio e Lombardia ve lo avevamo anticipato nell’editoriale di sabato, prima del voto. Ora proviamo ad approfondire alcune delle cause, o delle motivazioni, che hanno prodotto questo risultato.
Chi vi scrive non si è mai appassionato al dato dell’affluenza, ritenendo che il dibattito attorno agli astenuti sia solo un alibi per chi perde. Questa volta tuttavia, non si può trascurare che circa il 60% dei cittadini abbia disertato le urne, accellerando una tendenza in crescita da anni. Soprattutto ritengo che non possano non tenerne conto i partiti, cominciando dai vincitori.
Perché sapere che per un cittadino l’esercizio di voto sia equivalente ad un orgasmo simulato di Fedez in tv è un problema, per la politica, e per quei cittadini che non riescono più a distinguere tra realtà e fiction, reale e virtuale.
Se le istituzioni non recuperano alla svelta la loro funzione, quella di modificare le condizioni di vita delle persone, a seconda di una visione, possibilmente di una cultura di riferimento, la democrazia perderà la sua ragion d’essere, finendo come uno dei tanti reality di cui vengono nutrite le nostre coscienze.
Detto ciò, a votare ci sono andati tutti coloro che sono venuti in contatto con la campagna elettorale, o semplicemente erano informati del fatto che il 12 e 13 Febbraio si sarebbero tenute delle elezioni.
In questo contesto emerge qualcosa che nessuno dei grandi analisti ha sottolineato, l’importanza di avere, o essere, un partito, capace di mobilitare, anche in assenza dei canali mediatici.
Ha vinto Fratelli d’Italia, unico partito strutturato localmente nel centrodestra, ed ha tenuto tra gli sconfitti il Partito Democratico, che sarà criticabile per molte cose, ma ha il pregio di conservare una spina dorsale fatta di apparato e di struttura, che pure in assenza di un segretario nazionale, riesce a tenere botta, respingendo le opa ostili di soggetti più o meno evanescenti che si agitano per spartirsi le spoglie politiche di una storia che, purtroppo per loro, non si decide mai a morire.
Il governo di Giorgia Meloni esce rafforzato dal voto, ma lo fa senza che il Presidente del Consiglio si sia dovuta impegnare più di tanto nella contesa elettorale, a parte due apparizioni di prassi. E’ stato Fratelli d’italia ha sobbarcarsi lo sforzo di conquistare il consenso, così come la Lega in Lombardia, è riuscita a fare meglio del previsto, grazie al suo storico insediamento locale, facendo volentieri a meno delle fumose uscite di Salvini. Infine Forza Italia, notoriamente senza radicamento e classe dirigente omogeneamente distribuita sui territori, ha beneficiato di un posizionamento, quello centrista, riferimento per una fetta di elettori ed amministratori che si definiscono di centro o riformisti, ma non intendono consegnarsi all’irrilevanza ed al velleitarismo di finti poli terzi,che poi non sono altro che costole del Pd.
Lungo questo filo logico del discorso, veniamo ai grandi sconfitti, oltre al centrosinistra nel suo complesso ovviamente. Trattasi della Federazione Italia Viva – Azione e del Movimento Cinque Stelle.
Ad unirli nella sconfitta in primo luogo c’è la loro sostanziale impalpabilità territoriale ed il loro essere realtà personali o personalistiche. In poche parole, il loro non essere partiti veri. Questo li espone alle intemperie degli umori dell’elettorato e da una efficacia mediatica dei leader nazionali non sempre riproducibile.
Il terzo polo ha scelto, come sempre, la pesca delle ocasioni, per cui in Lombardia appoggia Letizia Moratti, nel Lazio Alessio D’Amato, due profili esattamente antitetici, da cui non si può trarre alcuna affinità che possa giustificare un progetto politico. Per quanto Calenda abbia provato a raccontare le magnifiche e progressive sorti, l’unico orizzonte che anima la lista sua e di Renzi, resta quello di una sostanziale dipendenza dal Partito Democratico, nel bene e nel male. Noi lo diciamo da tempo che la terzietà in politica non esiste.
Il Movimento Cinque Stelle invece aveva la pazza idea di attaccare il Pd da sinistra, occupando ed allargando uno spazio politico che, forse per la prima volta, si poteva scorgere, e tutt’ora esiste. Per farlo però serviva un minimo di credibilità ed almeno una dose omeopatica di generosità, propria di un leader politico, cosa che Giuseppe Conte non è.
Rompere nel Lazio col Pd restando con due assessori in giunta, scommettendo sulla sconfitta dem, per lucrare consensi in vista delle europee del 2024, non è una strategia, ma un cinico calcolo personalistico, fatto per di più con un movimento in eterno affanno quando si tratta di elezioni amministrative.
E’ la dimostrazione di quanto sia immaturo l’avvocato