Caos e creazione, ordine e disordine. Probabilmente, dunque con una sfumatura di eventualità, questa è la polarità tematica sul cui asse il discusso regista ucraino-newyorkese lascia scorrere gli anelli metaforici di quest’ultima, enigmatica, e forse per taluni irritante, narrazione. L’operazione filmica di Aronofsky, invero coraggiosa per non dire commercialmente suicida, si fonda su di un “patto” contratto con sé stesso, stilisticamente egoreferenziale e linguisticamente solipsistico. “Madre!” sancisce in modo fin troppo provocatorio il rifiuto di una certa nozione “euclidea” di storia: una storia convenzionalmente innescata dal succedersi logico, bidimensionale, di una successione di fatti, azioni e reazioni, sostenute da consolidati principi di verosimiglianza e dalla mimesis con l’oggetto narrato. Qui non è così. Ciò che il regista di “Noah” e de “Il cigno nero” azzarda è un attentato dinamitardo contro gli stipiti e i cardini della narrazione convenzionale. La vicenda ha un abbrivo comune; l’incipit è semplice, tra i più semplici concepibili, quasi da Kammerspiel. Uno scrittore in crisi vive ritirato con la giovanissima moglie in una grande casa in mezzo alla campagna. Radiografia di un idillio. Baci, carezze, effusioni, serenità. Lui e Lei però – attenzione – non hanno un nome; Lui e Lei non si chiamano mai. Avrebbero potuto chiamarsi Uomo e Donna, Adamo ed Eva, avrebbe fatto lo stesso. Già questa mancata nominazione che mima la deissi, il puro riferimento categoriale facente emergere solo la funzionalità segnica, scarnificata, esemplare degli attanti drammatici, è il campanello d’allarme, il primo, di un discorso che vuole disfarsi dello psicologismo del contingente drammatico per assurgere ad allegoresi universale. Lei, Jennifer Lawrence, è una moglie che, in opposizione al volto dodecafonico-cubista di lui, Bardem, incarna un’idea della bellezza e della levità persino caricaturali. La leggadria della Lawrence, seguìta sempre in primo piano e in piani sequenza, è programmatica: un’oleografia di maniera preraffaellita o botticelliana; una curatissima miniatura di chiome e boccoli dorati che ricade come una cascata di miele sulle tornite mensole di spalle e seni rigogliosi, che va a comporre un’icona di beltà angelicata accettabile solo come simbolo, altrimenti ridicola. È un vero angelo del focolare, e che focolare! Da quel poco che si vede (il film è tutto compresso negli interni, nelle virenti viscere della casa-universo) la domus è una dimora coloniale in legno a pianta circolare o esagonale; tuttavia, con scarto analogico, questa mansion in mezzo al verde in General Grant Style o il Queen Anne style rimanda altresì ad una costruzione templare di gusto sacramental-rinascimentale della tipologia di quella che appare, tanto per intenderci, sullo sfondo del dipinto del Perugino La consegna delle chiavi. Il rapporto simbiotico che omologa la sensibilità di Lei alle mura e alla casa vivente, esibisce un referente letterario che ai più non sarà sfuggito: Il crollo della casa Usher di Poe; con la differenza che qui la casa-maternità sempre risurgente è un “utero in affitto” ad uso degli scopi del maligno, e da quest’ultimo di volta in volta riattualizzata. Tutto a partire dal logos rubinico di fiamma e cenere, dal “seme minerario” del cristallo del fuoco, il bindu dell’universo che punteggia in una contrattile conflagrazione di apocatastasi cosmica: senz’altro una reliquia luciferina, come lo è del resto lo smeraldo verde staccatosi dalla fronte di Lucifero descritto nelle tradizioni esoteriche legate al mito del Graal. Ma siamo poi sicuri che Bardem quando si definisce sono ciò che sono sia veramente il Male? Altrove, nella Bibbia, non fu Dio stesso, nell’episodio del roveto ardente, a definirsi a Mosè come ʾehyeh ʾašer ʾehyeh (“Sono colui che è/sono” – Esodo 3, 14)? Ut(e)rum Deus sit? Il dubbio viene. Questa teleologia del Male, o di chi qui agisce in sua vece, prende una direzione da romanzo coniugale dove l’idillio è spezzato dall’infiltrarsi dell’alterità. Lo spazio della casa esplode sulla polveriera del grottesco più spinto. La casa come rifugio edenico, invasa dalla presenza umana, va in pezzi divenendo teatro di insurrezioni, sommosse, guerriglia, attentati, rivoluzioni. Mentre Lui, il marito, tenta di scrivere, Lei, frammento e pedina di un disegno superiore, si dedica al recupero cerimoniale dello spazio domestico; uno spazio in presagio di divenire l’orchestra e il sacrario dell’abisso. Un’ancella dell’ordine, Lei. Per amore di Lui la vediamo tinteggiare, stuccare le pareti; stabilendo con quest’ultime un rapporto tattile, intimistico, gravido in anticipo di pulsanti sensazioni di cigolante maternità. L’annuncio ominoso della maternità, di una eventuale maternità che da lì a breve andrà a calarsi nelle distocie di una ricettività spaziale deflagrante ceduta in enfiteusi al caos sovrano, introduce una prima macchia originaria: una ferita che s’insinua come un dubbio nell’eden sterilizzato della coppia. La casa anticipa in sintomatica prolessi l’orrore del caos a venire. Ecco allora aprirsi, agli occhi di Lei, piaghe sanguinanti sui pavimenti e sotto i tappeti; ulcere in espansione sui listelli del parquet, imbibiti di mestruo, come fossero garza; organi che palpitano e respirano nella filigrana dei muri mentre altri, carnosi glomeri, viscidi e rossi come un utero incidentato in un cuore, intasano il water risucchiati nell’abisso idraulico di chissà quale forma di subconscio evacuativo. Aronofsky mette in moto il suo ingranaggio giostrando atmosfere pseudosatanistiche e complottesche di stretta osservanza polanskiana. Lo spettatore lo sa, se ne accorge, ma s’inganna. Situazioni che farebbero pensare ad un background di stregoneria “condominiale”, ma che, di fatto, stregoneria non sono. Non vi è, come in Rosemary’s Baby, un attore fallito che cede la moglie e il nascituro al diavolo in cambio del successo; non vi è nemmeno l’uomo contro la donna, la moglie contro il marito in un’opposizione strindberghiana. Gli interessi di Aronovsky sono metafisici non sociali e ideologici. Ciò che il regista mette in scena è il caos che necessita dell’amore per essere qualcosa; in Lui agisce un’imperativa, ciclica bramosia agnatizia che anela vampirescamente l’amore per darsi infine importanza da star, e fondare il culto di sé stesso: ponendo così ordine all’inconsistenza ontologica del proprio impotente caos. Il male impotente senza un proprio essere, come assenza di bene; il male-nulla come privazione invidiosa: una tesi prossima a San Tommaso. Il clinamen che devia l’ortogonalità della narrazione dalla sua perpendicolarità fruibile, inaugurando di fatto l’insofferenza dello spettatore, è il momento in cui suonano alla porta. Ciò marca l’introduzione di un principio di entropia. L’arrivo notturno e improvviso del sedicente chirurgo ortopedico (Ed Harris), insieme al forzato feeling, all’intesa anomala, innaturale che l’accompagna e che si stabilisce tra l’ospite e il padrone di casa (tutto a spese di una moglie via via marginalizzata nel candore della propria incredulità, la cui volontà di protesta e reazione viene anemizzata dai modi rassicuranti e minimizzanti del marito) segnano l’inizio di un crescendo sconfinante nel parossismo più estremo. Lo spettacolo è insostenibile, si empatizza con Lei. L’ospitalità narcisistica, pretestuosa e autocelebrativa concessa da Lui, viene vissuta come un’invasione distruttiva da Lei. Gli invitati sono un vespaio in crescita sempre più molesto. E allora gli ospiti, cancellando poco a poco la linea di confine tra cortesia e invadenza incalzano sempre più da presso l’ambivalenza originaria insita nell’etimo della nozione di “ospitalità”, capovolgendone l’istituto di accoglienza: passando ad incarnare la faccia ostile e nemica dell’ospite, favorendo in ultimo l’agguato del caos. Un film non per tutti, mi sentirei tuttavia di consigliarlo a Georges Bataille, Marcel Jouhandeau, Roland Topor, a Joris-Karl Huysmans e Álex de la Iglesia.
Madre, un film di Darren Aronofsky
Federico Monti recensisce su Meta Magazine la pellicola statunitense di Darren Aronofsky Madre uscito a fine settembre in Italia