“La pazza gioia” del buon cinema italiano

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La pazza gioia
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La pazza gioia

Beatrice Morandini Valdirana è una chiacchierona istrionica, sedicente contessa e a suo dire in intimità coi potenti della Terra. Donatella Morelli una giovane donna tatuata, fragile e silenziosa, che custodisce un doloroso segreto. Sono tutte e due ospiti di una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, dove sono sottoposte a misure di sicurezza. Il film racconta la loro imprevedibile amicizia, che porterà ad una fuga strampalata e toccante, alla ricerca di un po’ di felicità in quel manicomio a cielo aperto che è il mondo dei sani.

Il regista Paolo Virzì ci racconta la sua nuova commedia “La pazza gioia”con Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzati, nelle sale  dal 17 Maggio.

Dopo aver fatto un thriller noir, dai toni freddi e beffardi, come Il Capitale Umano, sembra di poter dire, vedendo le prime immagini di questo tuo nuovo film che sei tornato ad una commedia dai toni più caldi. O invece, visto che affronti temi come la malattia mentale, si tratta di un film ancora più drammatico?

“Avevamo tra le mani una dozzina di pagine di soggetto con protagoniste due pazienti psichiatriche dai caratteri opposti che si ritrovano, un po’ per caso, a scappar via dalla struttura clinica che le ospita. Una fuga dalle regole, dalle misure di sicurezza, dalle costrizioni della cura che diventa un girovagare sconclusionato ed euforico nel mondo fuori.”

Quindi, possiamo definirlo una commedia avventurosa?

“Volevamo che fosse una commedia, divertente ed umana, una storia che ad un certo punto non avesse paura persino di tingersi di fiaba, o addirittura di trip psichedelico, ma che non fosse campata in aria. Volevamo raccontare anche l’ingiustizia, la sopraffazione, il martirio di persone fragili, di donne stigmatizzate, disprezzate, condannate, recluse. E però senza farlo diventare un pamphlet, un documentario di denuncia – ce ne sono già in giro di eccellenti. Cercavamo, semmai, tracce di felicità, o perlomeno di allegria, di eccitazione vitale, anche nel momento della costrizione, dell’internamento. Si può sorridere o addirittura ridere raccontando il dolore, o è qualcosa di impudico, di scandaloso? Speriamo di sì, che si possa, perché è la cosa che preferisco, nel fare un film, in fondo è l’unica cosa che m’interessa. Per esempio in questo film, ad un certo punto, che vorrei svelare il meno possibile, mettiamo in scena un episodio tra i più feroci che mi sia capitato di filmare. Eppure mi rendo conto di aver cercato di raccontarlo con un tono persino felice. Mi è sembrato che fosse l’unico modo autentico che avevo a disposizione per avvicinarmi ad un mistero altrimenti impenetrabile.”

Ci vuoi raccontare il lavoro sulla sceneggiatura, che stavolta hai scritto con Francesca Archibugi?

Francesca dice per scherzo che è stata la mia Lucy dei Peanuts, col suo banchetto che offre Psychiatric Help a 5 cents. Prima di buttarci a scrivere il copione lei ed io abbiamo cominciato col rompere le scatole a psichiatri e psicoterapeuti veri, dei quali avevamo adocchiato libri ed articoli, in libreria, sulle riviste, nei blog. Abbiamo chiesto loro di prenderci per mano e di accompagnarci nel mondo della strutture cliniche, delle loro storie di terapie. Abbiamo incontrato, nei luoghi della cura, i più diversi tipi di pazienti: i catatonici, gli eccitati, i melanconici, gli impiccioni, i sospettosi, i logorroici. Mi viene da aggiungere: come nella vita di tutti i giorni. Tra loro c’erano anche persone che le istituzioni, i giudici, i servizi sociali avevano sancito come pericolose, per aver compiuto gesti tali da condurle alla reclusione negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ed in questa esplorazione ci sono subito passate sotto gli occhi una gran quantità di Beatrici e di Donatelle, così sulle prime non riuscivamo a trattenerci dal far le classiche domande stupide: Che disturbo ha? Che malattia ha? Cos’è, una bipolare? Una depressa? Una borderline? Ma interessandosi alle vicende di ciascuna, ficcando il naso in quei vissuti spesso tumultuosi, abbiamo trovato tanta di quella trama che ci siamo appassionati proprio nel non definire l’identità di quelle persone con un referto  medico, con il nome del loro disturbo, con i farmaci da prendere, col piano terapeutico. Volevamo soprattutto stare dalla loro parte. E stare dalla parte di Beatrice e di Donatella, con tutti i loro pasticci e le loro cazzate, significava riaffermare invece l’importanza, la totale preminenza della loro storia, fatta di tribolazioni, abusi, subiti e perpetrati, ma in tanti lati anche buffa, delirante, comica, scombiccherata. Le abbiamo amate scrivendole, le ho amate filmandole, perché ci facevano ridere, perché anche sul set, nel momento in cui sono diventate due esseri in carne ed ossa, nel loro stare insieme trasmettevano una misteriosa, irresistibile, contagiosa allegria. E quindi posso dire che se è vero che in questo film abbiamo messo in scena momenti cupi, sconsolati ed anche violenti, mi è sembrato per altri versi di non aver mai filmato tanta esaltazione, tanta ebbrezza, tanta ilarità.”

Raccontaci di Villa Biondi, la “comunità psicoterapeutica ad alta intensità di cura” che avete messo in scena nel film. È una struttura che esiste davvero o è un tuo sogno?

“Nella nostra esplorazione durante i sopralluoghi di sceneggiatura e poi in quelli più tecnici, con i reparti di scenografia e di casting, abbiamo visto posti sconsolanti, dove i pazienti vengono custoditi in modo sbrigativo: sedati dai farmaci, a volte contenuti da fasce e lacci, a volte dimenticati. Abbiamo seguito con attenzione il momento di cambiamento che è in corso, con la legge che finalmente chiude gli OPG entrata in vigore, dopo anni di rinvii, proprio mentre stavamo girando il film, nell’aprile scorso. Finora però non è stata cancellata la sostanza concreta delle cose, e solo una parte degli internati ha trovato accoglienza in strutture davvero alternative alla segregazione. Ma abbiamo anche scoperto posti molto belli, se così si può dire; col loro contenuto travagliato, eppure carichi di energia vitale, dove si cerca di mettere in piedi progetti di riabilitazione ottimistici, che vanno oltre la custodia, dove veniva persino voglia di rimanere, di implorare di poter essere ricoverati per qualche giorno, volendo anche per sempre. E soprattutto abbiamo conosciuto tanti operatori – medici, psichiatri, psicoterapeuti, tecnici della riabilitazione, paramedici, volontari – motivati, competenti ed appassionati, dalla dedizione totale e commovente, spesso a dispetto di una gravissima carenza di strutture, di organici adeguati. Villa Biondi è un’invenzione, con le suore, gli psichiatri appassionati, il giardinaggio, le canzoncine coreografate, la stanza del setting variopinta, ma dove abbiamo messo insieme elementi che avevamo osservato dal vero, nelle situazioni cliniche più disparate. Siamo sulle colline pistoiesi. Intorno c’è il mondo dei vivai, dove peraltro davvero può capitare di vedere al lavoro, in quota sociale, persone con un vissuto problematico che appunto escono da comunità di recupero. Certo, a Villa Biondi, c’è anche un assistente sociale scettico e ottusamente normativo, ci sono steccati e regole, piogge di farmaci, e può venir voglia di scappare. Ma abbiamo voluto immaginare che fosse un posto anche accogliente, dove potesse venir voglia di tornare. Io sento di aver bisogno di una Villa Biondi, dove cercare un riparo dalla ferocia del mondo, nei momenti di sconforto. Mi piacerebbe che esistesse davvero, proprio lì nella tenuta agricola abbandonata dove abbiamo creato il set, perché ormai conosco bene la strada.“

Parlaci delle due interpreti di Beatrice e Donatella, ovvero Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti: hai pensato fin dall’inizio a loro come protagoniste?

“La Pazza Gioia non sarebbe stato neanche pensabile per me senza Valeria e Micaela. Il primissimo spunto per fare questo film nasce da un’immagine di loro due che camminano tra l’erba, il fango e la neve, che ho spiato da lontano. Eravamo sul set de Il Capitale Umano e Micaela era venuta in visita, il giorno del mio compleanno. Stavo girando l’ultimo ciak, prima di pausa, di una scena tra Bentivoglio e Gifuni. E vedo appunto, laggiù nell’area dei camper degli attori e della produzione, Valeria che conduceva Micaela verso il tendone del catering, la prima con addosso una specie di gualdrappa per coprirsi dal freddo sopra l’elegante e dorato abito di scena del suo personaggio, zampettando sui tacchi, mentre l’altra le arrancava dietro, con un misto, mi sembrava, di fiducia e di sgomento. E ad un certo punto, siccome il terreno era impervio e zuppo di neve sciolta. Valeria ha porto la mano a Micaela per aiutarla. È stato in quel momento che ho avuto una voglia improvvisa di puntare la macchina da presa verso quelle due tipe interessanti, bellissime, buffe e forse un po’ matte, laggiù, trascurando la scena che stavo girando (non me ne vogliano Gifuni e Bentivoglio). Sono due attrici molto diverse, portatrici di mondi forse distanti, ma entrambi totalmente anticonvenzionali e del tutto istintive. Valeria è un’attrice-autrice generosa e geniale, che ha il coraggio di portare sempre qualcosa di se stessa nel personaggio che crea, prendendosi in giro con sofisticatissima autoironia e calandosi in quel che sta mettendo in scena con slancio temerario. Poi personalmente ho un debole per i suoi film da regista, divertenti, sinceri, spudorati, sempre in bilico tra dramma ed ilarità. Micaela è quella creatura stranissima che vedete: sembra piombata sulla terra da un pianeta sconosciuto, e nonostante teoricamente dovrei conoscerla molto bene, è in realtà tuttora un mistero per me, ed in fondo preferisco che sia così. Quando la vedo al cinema mi capita di non riconoscerla, tanto si trasforma ogni volta, e la sua dolcezza, la sua vulnerabilità, non le impediscono, se lo vuole, di incarnare la fierezza selvatica di una tigre. Messe insieme sulla scena, queste due, mi sembra che sprigionino un’energia potente, divertente, toccante, che non vedi l’ora di catturare con la macchina da presa.”

Due protagoniste femminili, una clinica che ospita solo donne… è anche per questo che hai voluto scrivere il film con una co-sceneggiatrice donna?

“Dicevamo per scherzo sul set che a Villa Biondi c’era odore di… progesterone, di mestruazioni. Eravamo circondati da una trentina tra attrici professioniste, mescolate ad altre che invece portavano una propria esperienza personale, pazienti del Dipartimento di Salute Mentale di Pistoia diretto dallo psichiatra Vito D’Anza, che nel suo centro diurno, tra le varie altre attività riabilitative, fa anche fare attività teatrali. Innanzi tutto, per rispondere accuratamente a questa tua domanda, vorrei dire che a me sono sempre interessati molto i personaggi femminili, anche come lettore e come spettatore. Da “Madame Bovary” a “Anna Karenina” c’è una letteratura che trae una speciale ispirazione dal racconto dell’animo femminile. Mi viene in mente anche Carlo Cassola, e nel cinema Pietrangeli, Scola, Woody Allen… Non lo sto facendo apposta, ma mi rendo conto che sto citando tutti autori maschi, che hanno raccontato vicende di femmine. Poi a volte sento dire: lo “sguardo al femminile”, e probabilmente esiste anche quello, ma non chiedetelo a me, non saprei da che parte cominciare. Però non c’è dubbio che avere Francesca come partner per me è stato utile, oltre che divertente. Era un desiderio che avevamo da tempo, e in fondo in forma non ufficiale lo avevamo già fatto, da quando eravamo insieme giovani allievi di Furio Scarpelli, freschi di Centro Sperimentale: Francesca era la sorella maggiore, quella che nell’87 aveva già girato il suo primo film, quando io ero ancora a scuola. Insomma, quando io ero solo il galoppino di Furio lei era già una giovane regista famosa, ma eravamo abituati a scambiarci i copioni, a volte anche a metterci il becco sopra e abbiamo continuato a farlo, nel tempo. Però non avevamo mai firmato la sceneggiatura di un film insieme e questo sembrava il progetto giusto per poterlo fare. Non solo perché Francesca è una donna, sarebbe riduttivo, ma soprattutto perché è intelligente, colta, divertente e brava “come ‘n ‘omo” (scherzo!). Condividiamo molte passioni, politiche, narrative e psichiatriche. Abbiamo avuto esperienze con amici e parenti un po’ matti e forse siamo entrambi una “calamita” per certi pazzerelli, psicotici, disturbati vari. Adesso però forse è meglio che parli solo per me, e Francesca dirà la sua in proposito, ma io sento di attrarre i matti e sicuramente ne sono attratto a mia volta. Mi è capitato per strada, sul treno, anche al mare: vengo avvicinato da qualcuno e dai discorsi sconclusionati e fantasmagorici che mi rivolge capisco che è un matto. Chissà perché si rivolge proprio a me. Forse perché sente una disponibilità, o un’affinità. In effetti le persone con un disturbo mentale evidente e dichiarato mi interessano di più di quelle che lo nascondono, a volte dietro la maschera della nevrosi. Sono più autentiche, più reali. Per esempio era veramente liberatorio parlare di farmaci, di malattie, di disturbi, di problemi d’ insonnia, di ansie e di angosce con le ragazze di Pistoia che sono venute a lavorare con noi nel film. C’era una grande libertà e assenza di ipocrisia nel confidarci i nostri guai: “Ma te che prendi? Quante gocce?” Ecco, questo dichiarare la propria fragilità mi è sembrato che ci facesse stare già meglio.”

Possiamo definire quindi “La Pazza Gioia” un film terapia?

“In fondo è la storia di un accudimento e di una cura, tra due pazienti psicotiche ritenute pericolose. Alla fine tutti i film sono una terapia, aiutano non dico a guarire, ma almeno a sopportare meglio le cose della vita, specie se vanno a scovare la commedia proprio nel cuore del dramma e della tragedia. Forse il piacere di raccontare viene proprio da questo mettere il naso nei pasticci anche tremendi, nella accettazione senza riserve della natura umana, coi suoi lati sconvenienti e a volte spaventosi. Nel cercare la luce dentro quello che sembra buio”.