Classe 1996, mediatrice culturale, sinologa in erba. Martina Benigni, giovanissima, ha già vissuto due esperienze formative fondamentali: nel 2020, quando i primi 2 casi di Covid arrivarono in Italia –si trattava della coppia cinese- Martina fu tra i volontari che, presso l’INMI Spallanzani, assistettero come mediatori i pazienti cinesi ricoverati; a dicembre scorso, poi, ha pubblicato il suo primo libro: una raccolta di poesie dal titolo Coraggiosamente fare le cose per niente, che sarà presentata il prossimo giovedì 24 febbraio nel teatro dell’Istituto Colle la Salle.
Martina ha inoltre appena firmato, sulla prestigiosa rivista Left , un’intervista a Zhai Yongming, figura di riferimento della poesia femminile cinese.
Com’è nata la tua passione per la scrittura? Relativamente presto, ma non è “sbocciata” subito. Da bambina, mi piaceva moltissimo inventare favole, mi divertivo a raccontarle ai miei compagni e a me stessa. Alle elementari iniziai a collezionare tutta una serie di taccuini e quaderni- cosa che faccio ancora oggi- dove scrivevo le mie storie e i miei pensieri. Crescendo, mi sono dedicata sempre di più alla lettura, innamorandomi di autori, autrici, personaggi e storie, che hanno fatto nascere in me il desiderio di scrivere, di ridare al mondo quella bellezza che, nonostante tutto, vedo e sento circondarmi ogni giorno. Inizialmente mi sentivo più legata alla prosa, ma poi, come recita un bel componimento di Pablo Neruda, “la poesia venne a cercarmi” e da allora tutto è cambiato. Credo sia stata la lettura, il primo anno di liceo, del Sonetto XVIII di William Shakespeare a farmi realizzare appieno l’importanza della letteratura nella vita degli esseri umani, oltre a cristallizzare il mio amore per la poesia e l’esigenza di scrivere. Negli ultimi versi recita infatti: “Ma la tua eterna estate non dovrà svanire, / Né perder la bellezza che possiedi, / Né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra, / Quando in eterni versi nel tempo tu crescerai:/ finché uomini respireranno o occhi potran vedere, / Queste parole vivranno e daranno vita a te.” La letteratura è in grado di superare qualsiasi limite spazio-temporale, di ergersi al di là delle differenze, delle brutture; di creare un ponte fra gli esseri umani le cui vite possono allora giungere a toccare quelle degli altri creando una sorta di storia collettiva che chissà fino a quando sarà tramandata. Scrivere, quindi, per eternare un’immagine, un amore, un dolore, un ricordo, un pezzo di noi, degli altri, di ciò che siamo. Questo è ciò che muove la mia penna.
Sei giovanissima e già hai pubblicato una raccolta di poesie, da quanto tempo scrivi? Scrivo poesie dai primi anni del liceo, ma per lungo tempo non le ho fatte leggere a nessuno, fin quando, non più di tre anni fa, mi sono decisa a farle uscire da quell’isolamento a cui le avevo, ingiustamente, destinate. Ero molto insicura, non sapevo come un ipotetico lettore avrebbe potuto riceverle e di base non mi sentivo- e non mi sento- all’altezza della poesia, ma per fortuna ho incontrato sul mio cammino persone affettive e sincere che hanno saputo prendersi cura delle mie parole, accoglierle, farle loro, facendomi scoprire l’importanza della condivisione, la bellezza del regalarsi agli altri. Non mi aspettavo di riuscire a pubblicare una raccolta così presto, e per questo devo ringraziare la casa editrice Ensemble che mi ha da subito dato grande fiducia, molta più di quanta ne riponessi io in me stessa. Ciò che più mi stupisce ogni volta che un lettore mi contatta per parlare delle mie poesie, è lo scoprire quante immagini siano in grado di evocare le parole, quante emozioni riescano a diffondersi a partire da suggestioni personali ed è meraviglioso scoprire di aver fatto vibrare, anche solo per un momento, corde fino ad allora sconosciute nell’animo altrui e di conseguenza nel proprio. Ho sempre sognato di riuscire a donare un’emozione con le mie poesie, che in realtà non mi piace più definire “mie”, questo senso di possessione mi è ormai estraneo perché, con mia grande gioia, ora appartengono a tutti: sono libere di andare dove vogliono, di trasformarsi di lettore in lettore e di lettura in lettura, di viaggiare lontano fino a raggiungere i cuori che più ne hanno “bisogno” e scordarsi di me, sarò io a ricordarmi di loro.
Parlaci del libro, come nasce e come si sviluppa. Questo libro è nato da una serie, più o meno disordinata, di poesie scritte su fogli sparsi, quadernini, post-it e appunti dello smartphone a cui un giorno ho deciso di dare una parvenza di ordine. Ci sono stati vari tentativi nella redazione della raccolta finale: inizialmente le avevo divise per anno di composizione, poi, invece, mi sono abbandonata alle parole e alle immagini che suscitavano, alla ricerca di un filo rosso fra i vari componimenti e così, spontaneamente, è nata una divisione in cinque sezioni, o sei se contiamo la poesia volutamente isolata in apertura, “A cuore nudo”, come una sezione a sé. In ognuna di queste sezioni c’è una sorta di tema o di immaginario dominante: al mare, ai dubbi e all’esplorazione di sé seguono le “ricordanze”, come le chiamava Giacomo Leopardi, e le malinconie da cui si passa alla ricerca e alla difesa dell’identità femminile, all’amore e infine alla vita di tutti i giorni con tutta la sua straordinaria ordinarietà e resistenza di fondo. Il titolo poi, Coraggiosamente fare le cose per niente, per chi vuol capirlo, è la chiave stessa del libro e senso intimo del mio poetare.
Sei una sinologa in erba, che cosa ti affascina di questa cultura? La Cina vanta una storia millenaria, i cui riflessi sono ben visibili anche nella società di oggi, che pure è così diversa e in continua, velocissima trasformazione. La lingua è stata sin da subito uno degli elementi che più mi ha colpito, in particolare l’antichissima scrittura che possiede un innegabile fascino estetico. Da piccola sognavo di fare, tra le tante cose, l’archeologa e forse questo ha avuto una qualche silenziosa influenza nella mia scelta di studiare questa lingua e questa cultura, ormai cinque anni fa. Sono stata in Cina nel 2019 e sono rimasta incantata dalla bellezza di quel paese così lontano, eppure in alcuni aspetti così simile al nostro. Nelle grandi metropoli visitate, che nella loro immensità non possono non lasciarti senza fiato, andavo sempre alla ricerca dei vicoletti sperduti, quelli più “romantici” dove bellezza e crudezza si fondono, dove gli abitanti si conoscono tutti e lasciano sempre la porta aperta, in caso qualcuno voglia affacciarsi per bere del tè o per chiacchierare di qualche lontano parente. I colori, i profumi forti e decisi, i templi imponenti, le persone che si incontrano tutti i giorni alla stessa ora in piazza o nei parchi pubblici per ballare, magari all’alba, quando la frenesia della città non si è ancora risvegliata del tutto; la semplicità delle persone e una storia lunga millenni che è sempre ravvisabile e identificabile, sono solo una piccola parte delle tante cose che ho potuto vedere e vivere in Cina, che oggi mi mancano infinitamente. Ogni tanto mi capita ancora di chiudere gli occhi per rievocare le emozioni incontenibili discioltesi in calde lacrime di commozione di fronte allo splendore dell’Esercito di Terracotta o del Tempio del Cielo, solo alcuni dei siti storici più belli visitati.
Quando nel 2020 arrivarono i primi due casi di Covid in Italia, hai prestato la tua attività da volontaria come mediatrice culturale, ci vuoi raccontare quell’esperienza e ciò che ti ha lasciato? È iniziato tutto con un messaggio sul gruppo di Facebook del nostro corso di laurea del professor Federico Masini in cui chiedeva se ci fossero studenti e studentesse disposti a fare da mediatori culturali volontari allo Spallanzani per aiutare il personale medico, e non solo, a comunicare con i pazienti cinesi. Nonostante qualche timore iniziale, data dall’incertezza della situazione, rispondemmo prontamente all’appello perché il virus che più ci spaventava era quello dell’indifferenza: c’era bisogno di dare una mano, di fare la propria parte nel mondo e non potevamo assolutamente tirarci indietro. Ogni giorno dovevamo tradurre testi e parlare con i pazienti per cercare non solo di comunicargli tutte quelle informazioni fondamentali per la loro salute, ma anche per farli sentire al sicuro, a casa, sostenuti da qualcuno che conosceva, seppur non alla perfezione, la loro lingua e la loro cultura. Oltre ai due pazienti positivi, fra il resto dei turisti cinesi in quarantena, c’erano anche dei bambini ai quali abbiamo portato giocattoli, pennarelli e album da colorare, per cercare, almeno in parte, di alleggerire quelle giornate in stanza, intervallate però, da qualche uscita all’aperto in totale sicurezza. È stata un’esperienza unica e indimenticabile per me, sia dal punto di vista professionale che, soprattutto, umano: abbiamo conosciuto persone fantastiche, medici e infermieri competenti, gentili e infaticabili che ci hanno fatto sentire a casa sin da subito; abbiamo creato un rapporto umano profondo con quei pazienti cinesi che giorno dopo giorno si sono fidati di noi, giovani “translators”, come ci chiamavano per i corridoi dell’ospedale, regalandoci tante emozioni attraverso i loro occhi che sempre vedevamo vividi e vitali sopra le mascherine. Non dimenticherò mai il giorno in cui, prima della dimissione, ci siamo finalmente abbracciati dopo 14 giorni di distanziamento, scoprendoci finalmente i volti e i cuori per scoprirci diversi e uguali al tempo stesso.
Sei molto giovane, i bambini e i giovani sono stati i più colpiti dal Covid da un punto di vista relazionale. Come hai vissuto tu la pandemia? Come per tutti quanti, anche per me è stato un periodo molto difficile da diversi punti di vista, che sto tuttora elaborando. Ci siamo ritrovati all’improvviso in uno scenario che sembrava plausibile soltanto in libri come Cecità di José Saramago, in una situazione inverosimile che nessuno si sarebbe aspettato di vivere. Ancora oggi ci troviamo, secondo me, in una bolla di precarietà, in cui è difficile fare dei progetti per il futuro, persino scegliere se andare o non andare a prendere un caffè con degli amici è diventata una scelta difficile e cruciale. I giovani, soprattutto all’inizio ma anche ora, sono stati più volte additati come “irresponsabili”, “scellerati”, “incoscienti” e colpevoli della diffusione del virus perché pretendevano, e pretendono, di incontrarsi, di stare insieme, di divertirsi, magari, quasi fossero cose assurde e di una gravità pari solo ai peggiori crimini. Nessuno si è posto il problema, invece, delle difficoltà che l’isolamento ha causato in molti, anche in quegli individui considerati più sicuri di sé, e “forti” usando un termine, secondo me, tossico e fuorviante. La Dad, ad esempio, misura d’emergenza di cui ancora ci si avvale laddove ritenuto necessario, ha sicuramente avuto il merito di non lasciarci del tutto soli e di non paralizzare il mondo della scuola e dell’università, ma, come sappiamo, ha acuito tutta una serie di problemi già esistenti come quello del divario sociale: molti studenti non erano dotati di computer autonomo o di uno spazio proprio in cui seguire le lezioni, elementi che hanno costretto alcuni alla sospensione, se non addirittura all’abbandono, degli studi; per non parlare delle gravi ripercussioni psicologiche di cui soltanto oggi si inizia a parlare seriamente. Personalmente, ho cercato di andare in università il più possibile, senza mancare a nessuna delle lezioni che si potevano seguire in presenza per cercare di non perdere l’abitudine alla socialità e alla condivisione. L’essere umano è in grado di abituarsi velocemente a molte situazioni: senza accorgercene abbiamo assunto dei nuovi abiti mentali, ci siamo abituati alla distanza, allo stare in casa, al guardare con diffidenza agli abbracci perché pericolosi, a rinunciare, a chiuderci in noi stessi, tutte cose alle quali bisogna opporsi con una sana ma strenua resistenza. In quanto studentessa universitaria, ammetto di aver provato un grande disagio nel dover rinunciare alle lezioni in presenza e alla possibilità di incontrare professori e colleghi, di vivere la quotidianità a volte difficile, ma meravigliosa, di correre per non arrivare in ritardo fra autobus e metro, di discutere insieme nella “tridimensionalità” reale del mondo. Non oso immaginare quanto questa situazione sia stata ancor più opprimente per i bambini che si sono visti all’improvviso negare pomeriggi di gioco in compagnia, feste di compleanno, sport e tutta una serie di attività fondamentali per lo sviluppo sano dell’individuo. C’è molto da fare, molto su cui riflettere, bisogna trasformare questa dolorosa esperienza in uno sforzo collettivo di miglioramento personale e generale. All’inizio in molti pensavano che ne saremmo usciti migliori, ad oggi pare invece che stia andando tutto nel verso sbagliato, ma io mi riservo ancora la possibilità di credere nell’utopia che un giorno saremo più umani e spenderò tutte le mie forze affinché ciò diventi possibile.
Cosa vedi nel tuo futuro? In momenti precari come questi, mi poni una domanda molto difficile. La parola “futuro”, ultimamente, suona incerta, sbilenca, soprattutto per i ragazzi e le ragazze della mia generazione che magari stanno ancora completando gli studi cercando di specializzarsi in ogni ambito e in ogni modo pur di soddisfare un mondo del lavoro che sembra a volte irraggiungibile e lontano. Penso, però, che quello che realizziamo ogni giorno faccia già in qualche modo parte del nostro futuro, di ciò che saremo, e perciò mi sono ripromessa di concentrarmi su ogni piccolo passo che faccio, su ogni prezioso momento di presente seguendo le mie passioni e il mio sentire, sperando di continuare il più possibile nel viaggio, approdando qua e là in qualche isola nuova, di certo non deserta. Mi piacerebbe senza dubbio continuare nel mondo della letteratura, sia come scrittrice che come traduttrice, ma non voglio precludermi niente, piuttosto abbracciare ogni possibilità che la vita vorrà darmi in sorte. Nell’ultimo verso di una poesia della raccolta mi chiedo “Dove mai approderò?”, ecco, sono proprio curiosa di scoprirlo!
Complimenti Martina, sei una degna rappresentante di quella che noi di Meta Magazine chiamiamo “Generazione in movimento”!