Non solo Frank Sinatra alla Festa del Cinema

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Non solo la vita di Frank Sinatra in Sinatra: All or Nothing at All: l’ultima fatica di Alex Gibney è un vero e proprio affresco della società americana del secolo scorso. Gibney ha edificato la sua carriera di regista su documentari: dopo aver vinto l’ Oscar nel 2008 per Taxi to the Dark Side, ha ripercorso la storia del fenomeno Wikileaks, per poi spostare la propria attenzione sulla religione – setta di Scientology. Questa volta firma un film – documentario di quattro ore costruito sulle undici canzoni del concerto di addio di Sinatra: era il 1971 quando salutava le scene musicali all’Ahmanson Theatre di Los Angeles. Qui ogni canzone apre un capitolo della sua vita: da I’ve Got You Under My Skin a Fly me to the Moon. A cento anni dalla nascita del mito musicale, Alex Gibney ne traccia un ritratto inedito, grazie a immagini e registrazioni d’archivio messe a disposizione dalla famiglia del cantante.

Alla Festa del Cinema di Roma, il regista ha rivelato ai giornalisti i retroscena della realizzazione del documentario:

Che tipo di collaborazione c’è stata con la famiglia Sinatra?

“È stato un rapporto simile a quello che legava lo stesso Sinatra alla sua famiglia, bello ma con qualche intoppo. Occasionalmente sono nate tensioni, ma siamo stati in grado di trovare un accordo. Nancy Sinatra mi ha dato accesso a video, registrazioni e foto: ha letteralmente aperto gli archivi”.

Ci sono stati temi sui quali la famiglia ha posto il veto? Ci sono persone che non è riuscito a intervistare?

“Nessun veto. Avrei voluto intervistare Ava Gardner, purtroppo è scomparsa e non ho potuto farlo”.

Come ha lavorato sull’incredibile mole di materiale?

“Ho scelto di non usare le interviste video, ma solo le registrazioni audio. Questo per creare un gioco tra passato e presente. Il materiale audio è stato ripulito, solo quando era incompleto abbiamo usato gli attori”.

C’era l’intento di raccontare l’America di un periodo, quello che va dagli anni ’40 ai ’70?

“Ho pensato a un’opera su Sinatra come a un “Grande Gatsby”, quindi un lavoro che potesse raccontare la sua storia e quella dell’America. Il documentario è un ritratto di un paese, del sogno americano, ma anche dei lati oscuri dello stesso sogno. Sinatra aveva un retaggio italo – americano: si sentiva discriminato e per questo era schierato in prima linea a favore delle minoranze, dei più deboli”.

Era un appassionato di Sinatra prima di realizzare questo documentario? C’è qualche scoperta che ha fatto sul suo conto durante la lavorazione?

“Devo essere onesto, ai tempi dell’università Sinatra era considerato un conservatore dalla parte di Nixon o Reagan, quindi lontano dalle mie posizioni politiche. Posso dire di aver scoperto la sua grandezza artistica: quando cantava, le sue canzoni erano come dei film, non dei semplici brani”.