Notte prima degli esami, racconto di un momento speciale

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Liceo James Joyce Ariccia

Non avendo la voce di Antonello Venditti mi vedo costretto a ripiegare sulla sola prosa per cercare di raccontare questa notte un po’ speciale. Volendo simbolicamente lanciare un pensiero ai tantissimi ragazzi e ragazze che tra poche ore inizieranno il loro esame di maturità, senza scadere nella retorica, che in questi casi avrebbe il retrogusto della predica, provo a farlo ricordando quel che ho vissuto io.

Doverosamente premetto che ogni cosa che dirò è caduta legalmente in prescrizione e quindi in alcun modo perseguibile.

Di cose ce ne sarebbero da dire, molte se ne sono andate in qualche sperduto cassetto della memoria rimasto inchiodato, che non ne vuol sapere di aprirsi, ma a pensarci bene ciò che conta davvero lo si ricorda benissimo come fosse ieri. Frammenti di immagini, suoni, volti, sensazioni che ogni giorno portiamo con noi, vale per me che ho raggiunto lo status di “maturo” nel lontano 2000 come per chi lo diventerà tra qualche giorno.

Liceo classico ad indirizzo Socio Psico Pedagogico, sede di Ariccia di quel che ai miei tempi ancora si chiamava Ugo Foscolo, prima di mutare inopinatamente il proprio nome in James Joyce, Prima classe sperimentale dei Castelli Romani ad affrontare l’esame con la nuova legge che prevedeva tre scritti, commissione mista ed una serie di altri cavilli poi cambiati anch’essi negli anni futuri. Al mio primo anno in quella classe, ci accorgemmo che il nostro si apprestava ad essere un percorso particolare, e non solo per il nostro indirizzo di studi, praticamente sconosciuto all’universo mondo: psico che? era la risposta più frequente che ti sentivi dire quando declamavi la tua scuola. Di 33 compagni di classe, di cui soli 8 maschietti che eravamo all’inizio della corsa, ne restammo in 23, con una pattuglia maschile ancor più assottigliata che arrivò alle 6 unità, tra abbandoni e bocciature. Tra le peculiarità dell’esame del 2000 ci fu l’introduzione della mitica tesina, un fantomatico lavoro di gruppo vertente su alcune materie curriculari a scelta dello studente che, dai professori ti veniva presentato come una vera e propria ghigliottina, da molti di noi vissuto come un giudizio divino ed un peso da portarsi sulla gobba per 12 mesi, ma che in realtà è stata occasione buona per passare qualche pomeriggio a casa di qualche bella compagna di classe, magari scroccando qualche pranzetto o qualche uscita. Poi certo, se eri così tonto da farti inserire in gruppi di lavoro formati solo da indefessi secchioni, ancor peggio se tutti uomini, non potevi prendertela col destino cinico e baro. Io sinceramente non mi ricordo di aver trascorso un solo minuto con il mio gruppo per scrivere mezza riga della cosiddetta tesina, che per noi era, nei momenti di solitudine, una vera tesi di laurea. Mi ricordo solo che, come la maggior parte delle mie compagne mi occupai di temi inerenti l’educazione dei bambini e la sua applicazione a scuola. Il tutto condito con accurate e debbo dire anche qualitativamente apprezzabili relazioni riguardanti i nostri stage fatti durante l’ultimo anno negli asili, nelle scuole ed in molte realtà del mondo del volontariato, tra cui un’esperienza settimanale alla mensa della Caritas di Roma su cui ci sarebbe da parlare in separata sede. In più ci ho messo del mio lanciandomi in collegamenti con la letteratura di Salgari, cenni storici a non so cosa e altre amenità che, anche se ora non mi vengono, avevano un loro perchè. Per inciso, di tutto questo papello da noi prodotto nulla o quasi ci è stato fatto discutere al momento degli orali. Io non sono mai stato un tipo ansioso, seppur nella mia classe il clima a volte raggiungeva vette da analista, perciò ho affrontato tutto con una apprezzabile serenità, incluso l’istante in cui nell’autunno del 1999 ci diedero il ferale annuncio del sorteggio di matematica tra le materie inserite sia nella terza prova (altra novità assoluta che noi sperimentammo), che negli orali. Per inciso, le quattro ore di matematica settimanali per me equivalevano ad “ore di buco”, in quanto materia che non toccava ne il mio animo ne il mio interesse, ne tantomeno alcun istante del mio tempo libero. Per il resto non avevo motivi di preoccupazione essendo la mia media distinta in tutte le materie, con vertici di eccellenza in quelle letterarie. Nessuna notte insonne sui libri quindi, nessun intruglio rilassante ingurgitato, niente di tutto ciò. Credo di essere stato anche un pochino invidiato per questo: “Andrea non studia mai e prende quei voti, non è giusto”, alcuni lo dicevano, altri lo pensavano, più o meno in buona fede. Io ne sono sempre andato orgoglioso. Il primo giorno lo attendevo con gioia: era il giorno del tema d’Italiano, uno spasso per me che ho sempre sentito lo scrivere come un esercizio più per il mio cuore che per l’ortografia. Ho sempre pensato che lo scrivere è un prolungamento di noi stessi, dei nostri sentimenti, uno spicchio di tempo regalatoci perchè, citando Pessoa, “la vita non basta”. Rotto il ghiaccio ci attendeva la cosiddetta prova tecnica, ossia quella relativa ad una materia d’indirizzo curriculare, che per noi erano sociologia e psicologia, una relazione su cui mi sentivo abbastanza preparato che andò via liscia. Unico intoppo serio in quei giorni fu la canicola che picchiava sui vetri del corridoio in cui erano piazzati, in rigorosa fila indiana, i nostri banchetti, la quale per me fu aggravata dai miei lunghissimi e folti capelli dell’epoca che parevano attirare il sole come una calamita. Nei primi due giorni la questione “copiare” non era per me all’ordine del giorno, in quanto non si può copiare un tema, seppure durante gli anni confesso che parecchie conclusioni dei compiti in classe delle mie compagne portavano il mio copyright: come si può dire di no ad una dolce fanciulla che, sorridendo con occhi interrogativi, penna e foglio protocollo in mano, si avvicina a te durante la ricreazione con quell’espressione un po’ così che senza parlare ti dice tutto? Ma all’orizzonte si stagliava la terza prova che, per me significava matematica, e quindi, non ostante il mio fatalismo, richiedeva al sottoscritto alcune precauzioni. Nella mia ingenuità sapevo di non poter contare sull’aiuto altrui, essendo piazzato anche al primo banco, per un’infausta ed imprevista nuova disposizione fatta notte tempo non so da chi, mi sono rifugiato nei bignami, i quali, se con la storia possono essere utili sostegni, per uno che la matematica non l’ha mai praticata, sono un terno a lotto. Puntai allora sulla sorte, imparando praticamente a memoria due o tre tipologie di equazioni diverse, sperando di imbattermi in una di queste nella prova. Beh, non ci crederete ma così fu: quando sul foglio lessi quell’esercizio mi venne voglia di alzarmi dal banco e farmi applaudire, rigorosamente in piedi, da tutti gli astanti, prof inclusa. Restai soddisfatto di me, e la mia soddisfazione crebbe quando uscirono i voti degli scritti ed io, pur partendo non tra i primissimi, per un discutibilissimo punteggio d’entrata distribuito, mi piazzai secondo o terzo, non ricordo bene, con un 41 su 45. Superato questo scoglio non restavano che gli orali, che mi avrebbero visto protagonista tra gli ultimi. Io personalmente sono sempre stato abbastanza bravo con l’eloquio, ergo ero sicuro del fatto mio. Forse però proprio questo mio stato d’animo mi ha fatto concentrare più sul momento che stavo vivendo che sullo studio: ripensavo ai quattro anni trascorsi, alle persone con cui avevo condiviso quello che è per un ragazzo di quell’età, il momento più importante, i miei amici e le mie compagne di classe che non avrei più rivisto. Uno stato d’animo particolare, fatto di consapevolezza, di gioia e di un filo di malinconia per ciò che era stato e che non sarebbe stato più. A pensarci bene quei giorni tra gli scritti e gli orali sono stati tra i più belli, non perchè avessi fatto cose indimenticabili, ma perchè ho potuto davvero valutare l’importanza che alcune persone avevano avuto per me, il loro valore e ciò che da loro ho potuto apprendere. Capisco che chi oggi deve affrontare l’esame e legge queste cose possa pensare che io sia da ricovero urgente, ma credo che ripensandoci più avanti possa capire il senso del mio dire. Sono stato presente a tutti i colloqui delle mie compagne, senza perdermene neppure una, non tanto per curiosità, lo vedevo come un senso di rispetto e amicizia verso persone con cui hai condiviso molto, indipendentemente dal rapporto più o meno stretto che avessi con ciascuna di loro. Inutile dire che la prova orale era la più temuta, non ostante le rassicurazioni di qualcuno, i timori erano notevoli per molti. Chi si presentò in atteggiamento fantozziano: pallore ai limiti del collasso, scaramanzie varie, vestiti improponibili, si pensi che alcune fanciulle furono sconsigliate di indossare abiti particolarmente succinti, ma nella mia classe il rischio non c’era, dato che in quattro anni si è potuto apprezzare qualche ragazza con la gonna in classe come evento da segnare sul calendario. Solo una, la più temeraria si presentò sfoggiando una leggera abbronzatura: “se andiamo al mare pensano che non abbiamo studiato!” era la vulgata. Malcapitati in quel variegato mondo erano i fidanzati: poveri uomini costretti a subire ogni angheria, su cui si scaricava ogni isteria, singola e collettiva, assistevano alle performance delle loro partner con rassegnato ottimismo, vedendo come una chimera il poter finalmente passare qualche tempo in compagnia liberi da libri e scartoffie, si barcamenavano qua e la per i corridoi, appoggiandosi a tutti i muri come un padre attende in ospedale il parto della moglie dopo aver rifiutato di entrare in sala parto. Come tutte le cose, non per tutti c’è stato il lieto fine, non per tutti c’è stata giustizia e non tutti hanno ricevuto ciò che davvero meritavano, nel bene e nel male. Io ebbi la fortuna, e la bravura, di consolidare la mia soddisfazione, bissando il 41 degli scritti con uno squillante 35 su 35, che unito al 12 di entrata mi ha permesso di ottenere 89 su 100. Dopo tanti anni da quei giorni però credo che la cosa meno importante sia stato quel numero, sostituito nei ricordi dai sentimenti e dalle emozioni vissute con quelle persone: molte si sono perse, altre le hai ancora accanto, altre vorresti che lo fossero, ma tutte indistintamente hanno lasciato qualcosa di indelebile in te che non risiede tanto nei ricordi ma nel cuore. Non c’è un modo che fa essere speciale la maturità, ma la specialità di questo momento sta proprio nel fatto che, qualsiasi cosa tu faccia, è il momento stesso a rendertela indimenticabile, nel bene e nel male. Per questo il restare se stessi è il miglior aiuto per affrontarla e superarla con slancio.

Andrea Titti