Lavagna e gesso. È questa la mia Università, quella che mi piace e che mi fa amare il mio lavoro. Quella che mi manca e che vorrei tornare a vivere al più presto: una lavagna e un gesso consumato, davanti a un’aula di ragazzi e ragazze, che cerco con tutte le mie forze di interessare e appassionare alle mie lezioni.
Certo, utilizzo anche tutti gli strumenti tecnologici esistenti. E in questo periodo ho dovuto sostituire la mia amata lavagna, con slide e immagini da mostrare ai miei studenti in modalità di didattica a distanza.
Didattica a distanza, che viene valutata con esami a distanza, che conducono a tesi di laurea a distanza, con proclamazioni a distanza.
La situazione contingente ce lo ha imposto e tutti noi docenti ci siamo immediatamente adeguati alle esigenze del momento.
Ma le lezioni sono altra cosa. Le lezioni sono fatte di contatto con e tra gli studenti. Di sguardi, a volte curiosi e altri perplessi. Altre ancora assenti o annoiati, che mi fanno capire se sto andando bene o devo cambiare rotta, magari raccontando un aneddoto che alleggerisca la stanchezza e richiami l’attenzione.
Le lezioni sono fatte di alzate di mano per chiedere spiegazioni o conferme, in un continuo scambio e gratitudini reciproche. Di occhi che incontrano altri occhi, vite che si sfiorano e sorrisi a ogni cambio ora. Le lezioni dal vivo annullano le diseguaglianze. Non c’è il ragazzo che ha problemi di connessione o quello costretto a seguire la lezione dal telefonino perché a casa non c’è un pc disponibile. Sono tutti straordinariamente uguali nella loro diversità e specificità.
Purtroppo, invece, ciò che riusciamo a fare in questo momento, grazie alla didattica a distanza è “soltanto” una parte (seppur importante) di quelle ore in aula.
È la parte che riguarda il trasferimento di nozioni, informazioni, dove si dimostrano teoremi, si spiegano come funzionano gli impianti.
Tutte cose indubbiamente necessarie, ma non sufficienti.
Manca (e mi manca) tutto il resto.
Manca l’incontro di anime e menti, dove la conoscenza tra docente e discente supera la barriera delle “cose da studiare per superare l’esame” ed entra in uno spazio quasi esoterico di condivisione di sensi e percezioni, finalizzati a un obiettivo comune.
Il compito di un professore universitario è anche quello di scovare i talenti. E di valorizzarli. Preparandoli a diventare classe protagonista e dirigente del nostro Paese. Competente, consapevole, entusiasta e capace. Ma questo la didattica a distanza non lo consente. C’è bisogno di “vivere” lo studente, per poter riconoscere “il fuoco dentro”.
La didattica a distanza è un utile mezzo, da non sottovalutare né sminuire, ma non è il fine.
Già le drammatiche scelte fatte nei confronti dell’Università pubblica negli ultimi venticinque anni, da Luigi Berlinguer a Maria Stella Gelmini, in maniera del tutto trasversale passando attraverso improbabili Ministri, hanno provocato un livellamento verso il basso, rendendo il compito di noi docenti sempre più complesso.
Prolungare la didattica a distanza rischia di essere, in tal senso, una pietra tombale. Dobbiamo invece impiegare le risorse non per potenziare questo (seppur utile e al momento necessario) strumento, ma per restituire ai giovani un futuro, che conservi le cose belle del passato.
Perché anche l’Università risentirà della crisi post COVID. Ci aspettiamo un calo di immatricolazioni, dovute alle difficoltà economiche delle famiglie nel sostenere gli studi dei figli, in particolar modo di quelli che dovranno trasferirsi in una città universitaria. Calo di immatricolazioni dovute anche alla necessità di immettersi immediatamente nel mondo del lavoro.
Ma quale mondo professionale potranno trovare i nostri giovani? Anche i laureandi e laureati di queste settimane, formati per entrare nella catena economica del Paese, dovranno scontrarsi con le difficoltà ad accedere in un mondo del lavoro già ferito, e reso ormai agonizzante dalla crisi. Un mondo del lavoro, che non sarà probabilmente in grado di offrire collocazioni professionali adeguate alla loro formazione. Con conseguente esodo sempre più massiccio di giovani verso l’estero, o, peggio, verso l’accettazione di condizioni lavorative e retributive al di sotto delle potenzialità di ognuno.
Per questo, l’offerta didattica dell’Università deve, ove possibile, ulteriormente incrementarsi e diversificarsi. Per questo, bisogna investire risorse. Per poter preparare gli studenti di oggi, a fronteggiare questo difficile periodo, le cui conseguenze purtroppo, pagheranno (e pagheremo) per anni.
P.S. La foto con cui ho scelto di accompagnare questo pezzo, ritrae me seduto accanto ad una mia laureanda, poco prima che discutesse la sua tesi.
Lei è il mio dispiacere professionale più grande: quello di non aver potuto veder riconosciuto il suo valore, in termini di votazione finale di laurea, come avrebbe meritato. Ma le cose purtroppo, non sempre vanno come avremmo voluto, e come sarebbe giusto che vadano.
Ho scelto questa foto, perché quando la guardo provo la stessa frustrazione che provo per tutti i giovani là fuori, che con tanti sacrifici, propri e delle famiglie, sarebbero pronti a dimostrare ciò che valgono. Ma appena provano a varcare quella soglia, un cartello li accoglie: “Ritenta, sarai più fortunato.
Ecco, vorrei che non dovessimo appellarci alla fortuna (o almeno, non solo).
Vorrei poter dire loro che se si impegnano e lavorano sodo per raggiungere un obiettivo, poi ce la faranno. Vorrei dirgli che qualcuno saprà riconoscere il loro talento.
Vorrei dirgli di non scoraggiarsi. Vorrei dirgli che andrà tutto bene.
Vorrei.
Invece guardo questa foto e sono preoccupato. Per loro. Per i loro sogni. Per il loro futuro. Per tutti quelli che con mille nomi diversi, mi ricordano la delusione di quella studentessa.
E il mio rammarico, per non aver potuto fare di più.
Ma io continuerò con tutto me stesso a cercare talenti, per formarli e valorizzarli.
Riguardo la foto.
Mi piace pensare che torneremo a parlarci così vicini. E a guardare avanti, nella stessa direzione.
E allora, solo allora, sorrido.