Un appuntamento che può dirsi consueto tra quelli più attesi della Capitale: prima di iniziare un tour mondiale, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, torna il World Press Photo, alla 66esima edizione.
Tornano, cioè, gli scatti più iconici del fotogiornalismo mondiale per un’anteprima nazionale che celebra il blasonato Concorso presentando le 120 foto finaliste dai migliori professionisti del settore, premiati dalle giurie.
Qualche numero: 60 mila foto e progetti, inviati da circa quattromila fotografi, da 127 Paesi. Vincono solo in quattro (per ciascuna delle categorie: Singole, Storie, Progetti a lungo termine e Open Format), per ognuna delle sei zone del mondo (Africa, Asia, Europa, Nord e Centro America, America del Sud, Sud-Est asiatico e Oceania), scelti tra i 24 vincitori regionali 2023.
Fino al 4 giugno prossimo, perciò, sarà possibile ammirare da vicino la “Migliore foto dell’anno”.
Uno scatto che a molti sembrerà di avere già visto: ed è vero, perché si tratta di quella del fotografo ucraino Evgeniy Maloletka. L’immagine, che è la testimonianza più crudele di una guerra ancora in corso, risale al marzo 2022, durante l’assedio di Mariupol: una donna incinta è trasportata, in barella, fuori da un ospedale danneggiato da un attacco aereo russo. Gravemente ferita, morirà mezz’ora dopo aver dato alla luce suo figlio morto.
La “Story of the Year”, invece, è del danese Mads Nissen: nove, inquietanti foto, che raccontano le difficoltà quotidiane del popolo afghano sotto il regime dei talebani. Il miglior “Long-Term Project” è dell’armena Anush Babajanyan che ha denunciato lo stato di quattro Paesi dell’Asia centrale alle prese con la crisi climatica, la siccità e lo spirito di resilienza degli autoctoni. Nella categoria “Open Format Award” (ovvero, progetti che usano media diversi), vince il fotografo egiziano Mohamed Madhy, con la sua storia di una comunità di pescatori, che sta scomparendo, ad Alessandria d’Egitto.
Il tricolore sventola tra i vincitori regionali con Simone Tramonte (per la “Long-Term Projects per l’Europa”, sul tema del cambiamento climatico affrontato con l’innovazione) e con Alessandro Cinque (con un progetto sulle allevatrici peruviane di alpaca).
In ideale continuum con l’ineludibile capacità narrativa delle foto, è l’immaginifica mostra di Francesco Vezzoli, visitabile presso lo stesso Palazzo di via Nazionale fino al 27 agosto 2023.
L’artista ha tratteggiato il suo immaginario in “Vita dulcis. Paura e desiderio nell’Impero romano”, curata assieme a Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano. Creando l’ennesimo ponte tra l’arte contemporaneo e quella antica, Vezzoli si muove tra diversi meta-linguaggi, in un continuo gioco di rimandi, tra classico e pop, e tra capolavori inediti e modernità.
Si tratta di una mostra fastosa, in cui gli insigni reperti dal MNR (spesso mai esposti) sono immersi in un percorso espositivo inatteso, che li relaziona con alcune opere recenti del bresciano, che a questi s’ispirano.
Ad accogliere il visitatore sei grandi opere luminose, come una sorta di Olimpo al femminile, con le divinità che alludono alle dive di oggi. Poi, sette sale per sette macro temi, dispiegate intorno alla rotonda centrale.
Statue, epigrafi, ex voto e altre memorabilia sono mescolate alle opere di Vezzoli: c’è tanto dai depositi e molto dal cinema, il medium che, più di altri, ha narrato la Roma dei triclini. Tutto, illuminato dal pluripremiato Luca Bigazzi (su progetto di Filippo Bisagni), che contribuisce a creare un habitat sì spiazzante, ma privo di quella marmorea “lontananza”, tipica delle narrazioni di genere.
Una leziosa curiosità: in una sala al piano terra è proiettato il video, girato a Los Angeles, “Trailer for a remake of Gore Vidal’s Caligula”, ispirato all’ “Io, Caligola” di Tinto Brass. Godibilissimo e con un cast stellare (da Hellen Mirrer a Benicio Del Toro, passando per Adriana Asti)…
Info: www.palazzoesposizioni.it