Yasmine una di noi, Meta propone progetto che porti suo nome

Meta Magazine propone un progetto ed una borsa di studio sui temi dell'inclusione sociale e la vita comunitaria che porti il nome di Yasmine Seffahi

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Yasmine Seffahi insieme ad una compagna di scuola nella redazione di Meta Magazine durante il progetto Giornalista non per Caso

Yasmine non aveva ancora compiuto 18 anni, viveva nel nostro quartiere, nella nostra città, frequentava con profitto uno dei Licei più noti dei Castelli Romani, ed aveva tanta voglia di partecipare, di esserci, di affermare la sua esistenza di giovane ragazza nel mondo fuori dalle mura di casa sua. Fuori da quelle mura che per lei erano diventate una prigione, una prigione da condividere col peggiore possibile degli aguzzini: sua madre. Un aguzzino che in una domenica di Maggio le ha reciso quel filo di speranza che la teneva legata al mondo ed alla vita, con un coltello da cucina, prima di ardere quella casa e gettarsi giù dal balcone di quella prigione. Avevamo conosciuto Yasmine, bene, ma non tanto bene da capire il suo dramma, perché è stata nostra studentessa nel progetto Giornalista non per Caso 2017 che abbiamo realizzato nella sua scuola. Una ragazza sorridente e discreta, tanto quanto curiosa di scoprire un altro mondo diverso da quelle quattro mura. Anche dopo la fine di quel progetto lei era rimasta vicino a Meta Magazine, alle nostre iniziative, così come tanti di quei giornalisti non per caso che da quattro anni viaggiano a bordo con noi. L’ultima immagine che vogliamo ricordare di lei è il suo entusiasmo, financo eccessivo e ostentato entusiasmo, con cui stava partecipando con altri ragazzi e ragazze, alla campagna elettorale che proprio nel giorno in cui gli è stato reciso il filo della vita, li avrebbe portati ad eleggere il primo Consiglio Comunale dei Giovani di Albano Laziale. Quanto avrebbe voluto candidarsi in prima persona, lo sa chi scrive in quanto proprio negli uffici della nostra redazione ne parlammo, alla presenza, onnipresenza, di sua madre. E quando gli comunicai l’impossibilità di un posto per lei in lista, non batte ciglio, e come se niente fosse, tutta quella carica positiva la riversò per sostenere altri, per partecipare, per esserci, per divenire parte di qualcosa di altro rispetto a quelle quattro mura, lontana dalla sua aguzzina, nei limiti che, lo sapeva, la stessa aguzzina gli avrebbe concesso. Non ha potuto neanche votare Yasmine, e neanche troppo partecipare, almeno non come avrebbe voluto, perché, come mi diceva al telefono: “Andrea purtroppo non posso esserci perché in questi giorni ho un po di problemi di salute, sono stata pure in ospedale, e devo rimettermi in pari con lo studio, ma mi raccomando, io ci sono, fatemi sapere in chat: ci tengo tantissimo”. Ovviamente quelle visite in ospedale ed il suo stato di salute non erano malanni di stagione, ma gli ultimi sintomi del suo fine vita, che io per primo, così come tutta la nostra comunità, non abbiamo capito. Su questo nostro non capire dobbiamo interrogarci: io mi sto interrogando, da quando ieri sera abbiamo pubblicato la notizia. Cosa c’è, cosa si nasconde, cosa nascondiamo quando ci chiudiamo dietro la schiena il portone di casa. Cosa c’è dentro le mura del nostro vicino. Quanta e quale differenza c’è tra il racconto pubblico di ciò che c’è dentro le nostre quattro mura e quanto questo racconto è vero, verosimile o da noi stessi inventato. Ciò che è accaduto a Yasmine non sta generando i soliti spasmi da social, non ci sono invettive violente, non ci sono strumentalizzazioni ne strumentalizzatori in servizio permanente effettivo: c’è silenzio, un silenzio stupefatto, incredulo, addolorato. Non ci sono spiegazioni facili, quadri a tinta unita: non una fede religiosa, non l’imposizione di usi e costumi, non un semplice rapporto difficile madre figlia, non un’infanzia turbolenta e travagliata, riescono fino in fondo a darci una facile chiave di lettura di una storia tragica che forse per essere capita ha bisogno di comprendere tutte le spiegazioni possibili, per una ragazza prigioniera consapevole di non potersi liberare da sola. Yasmine era nata a Biella, vestiva come tutte le sue coetanee, la domenica mattina faceva a volte capolino al campo di Via Spagna dove gioca il Cecchina Calcio, l’ultima volta ci andò per fare, come mi diceva lei, “un po’ di propaganda”. Poteva fare o tutto ciò che fanno i suoi coetanei, tranne una cosa però: avere un posto intimo dove ospitare i suoi affetti, le sue confidenze, le sue fragilità, i suoi dubbi ed i suoi sogni, senza di tutto questo avere paura che il suo aguzzino la potesse ascoltare. “Non voglio tornare da lei, lei è il diavolo”, dicono abbia detto agli operatori sanitari che la stavano per rimandare a casa in una delle sue ultime visite ospedaliere, “La prossima volta che verrete qui sarò morta”, disse ai volontari del 118 accorsi sotto casa sua in un’altra occasione, racconta ai giornalisti un vicino di casa. Richieste di aiuto rimaste purtroppo inascoltate, non capite, come tutto il resto che non abbiamo capito. Indietro non si torna, quelle fiamme oltre alla casa hanno bruciato anche la vita e con la vita quella speranza che Yasmine infondo serbava, di potere essere liberata, magari da quel principe azzurro che tutte le ragazze della sua età sognano arrivi da un momento all’altro. Ma noi siamo qui e non possiamo far finta di non capire mai ciò che ci circonda: non possiamo non capire mai ciò che non vogliamo o possiamo capire. Dobbiamo sforzarci di capire, di capire gli altri, a partire dal nostro vicino di casa, si, proprio quello più strano e più fastidioso, così come il compagno di classe meno appariscente. Sul come si faccia a capire non sapremmo dire, ne tantomeno insegnare, ma vorremmo che Yasmine ci insegnasse almeno a provarci. Da queste righe lanciamo la proposta di istituire un progetto rivolto alle istituzioni, da realizzarsi in collaborazione con scuole e cittadini, sui temi della socialità, dell’integrazione umana, della conoscenza dell’altro, della vita di comunità. Perché qualcuno guardi dentro le nostre quattro mura, e protegga chi pù ne ha bisogno e non ha la forza di chiederlo. Perché qualcuno racconti davvero cosa c’è dentro quelle nostre quattro mura, senza vergognarsene o doverne avere paura. Chi saprà meglio interpretare lo spirito del progetto auspichiamo possa essere premiato con una borsa di studio che porti, per sempre, il nome di Yasmine Seffahi. Perché Yasmine è una di noi.